L’orecchio del cuore. Leggendo il romanzo “Fu sera e fu mattina” di Ken Follett ho trovato questa espressione tratta dalla regola di San Benedetto, che mi ha colpito in modo particolare.
È di nuovo un po’ che non scrivo sul mio blog, ma non potevo non mettere nero su bianco le riflessioni che mi sono nate da queste due semplici parole.
Emblematico è uno stralcio di dialogo che ho colto ieri fra mio figlio e la sua maestra durante una lezione in DAD:
mio figlio: “Maestra, non ti sento”
maestra: “Adesso? Va meglio?”
mio figlio: “Sì, adesso ti sento”
maestra: “Perchè non hai ancora preso il quaderno?”
mio figlio: “Scusa maestra, non ti stavo ascoltando”.
Questo mi ha fatto pensare a quante volte anche io sento gli altri, ma non li ascolto veramente. Sento i litigi fra i fratelli, sento le persone che mi parlano di lavoro, sento le lamentele di chi vorrebbe uscire da questa situazione, sento la mia stanchezza… ma ascoltare è un’altra cosa.

Parlare è un bisogno, ascoltare è un’arte.
(Goethe)
Ascoltare è allenare l’orecchio del cuore. Ascoltare è prima di tutto la capacità di fare silenzio e di non temere di stare un po’ in sua compagnia. Mi accorgo che sono piccoli e fuggevoli i momenti che mi ritaglio per fare un po’ di silenzio. Non solo attorno a me, spegnendo il cellulare, la tv, lo smartwatch (!), ma soprattutto dentro di me. Abbassare il volume della lista di cose da fare, silenziare la voce che mi critica, mettere a tacere le mie conoscenze e con esse le mie assunzioni sul mondo, per ascoltare davvero.
Ci sono tre componenti dell’ascolto con l’orecchio del cuore che cerco di allenare:
- Ascolto del mio corpo. Chiudere un istante gli occhi e avere pazienza con quel corpo che a volte mi sembra non voler stare dietro alla mia testa, quel corpo che si stanca, che accumula tensioni, che mi manda dei messaggi che non sono solo inerenti alla mia salute fisica, ma mi parla di me come di un tutt’uno con la mia mente e che a volte vorrei invece separare.
- Ascolto del mio cuore. Con cuore intendo i miei desideri, le mie passioni, le mie motivazioni. Riconnettermi col mio “purpose” (che forse il Benedetto dell’”aurem cordis” avrebbe chiamato vocazione) per ristabilire le mie vere priorità, ciò che conta nella mia vita e in ogni singola giornata. Quando è chiaro il senso finale, sono in grado di indirizzare i miei comportamenti e le mie capacità in quella direzione, trovando risorse per superare le difficoltà che neanche sapevo di avere.
- Ascolto degli altri. Forse l’ascolto più ovvio, ma non per questo più facile. Perché ognuno di noi ha un pensiero che costantemente attribuisce significati a ciò che accade, alle interazioni con le persone, senza i quali non saremmo in grado di interagire. E quando va bene, questa attribuzione di significato si basa su una molteplicità di informazioni, riflessioni, analisi; quando va male (vedi: sono stressata, stanca, di corsa, distratta) il mio cervello usa dei modelli preconfezionati cercando di incastrarci dentro la situazione o la persona che ho davanti, ovvero prende decisioni sulla base di pregiudizi o bias cognitivi. Un esempio: guardo i miei figli che giocano e penso che potrei chiedere loro di apparecchiare il tavolo, ma poi loro sbufferebbero e si lamenterebbero costringendomi a spiegare loro per l’ennesima volta che ognuno può fare qualcosa in casa, quindi alla fine faccio prima se faccio io, alimentando in me la convinzione che i miei figli siano scansafatiche e che io abbia sulle spalle il peso di tutto il mondo.
Per lavoro, io mi trovo costantemente ad ascoltare gli altri; solo che a volte, in particolare nel ruolo di trainer, ritengo che più che altro le persone si aspettino da me risposte, suggerimenti, consigli e il mio ascolto si focalizza sulle risposte che potrò dare.
In quei momenti è Socrate che mi viene in aiuto col suo “io so di non sapere”. È quello che immediatamente mi orienta non verso le risposte, bensì verso le domande, la più importante delle quali è “cosa posso imparare di te e da te, ora?”.
Il sapere di non sapere è una condizione di vulnerabilità e credo che sia per questo che istintivamente cerchiamo di evitarla. Ascoltare l’altro e comprenderlo vuol dire farlo entrare in uno spazio dove la nostra immagine può risultare meno perfetta di quel che cerchiamo di mostrare, insomma senza i filtri di Instagram. Ascoltare l’altro e comprenderlo è ammettere che non sappiamo fare tutto, che abbiamo commesso errori, che non abbiamo tutte le risposte che immaginiamo l’altro cerchi.
Eppure, mi accorgo che, in quell’incontro di non-saperi, di imperfezioni, di incertezze, c’è lo spazio per la creazione di nuovi significati che ridefiniscono ciascuna delle due parti e il contesto allo stesso tempo, che attraverso quell’ascolto non solo posso imparare a conoscere l’altro ma a conoscere me stessa attraverso la relazione con l’altro, in un processo potenzialmente senza fine.