La torta e il ciambellone

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Faccio una premessa: io adoro cucinare, ma i dolci non sono il mio forte.

In questi giorni, per proporre una merenda diversa ai miei figli, ho pensato di mettermi a fare un bel ciambellone allo yoghurt. Una cosa semplice, bella anche da vedere, con il suo bel buco in mezzo.

Mentre leggevo la ricetta, mi si è accesa una lampadina: ma non è la stessa ricetta della torta allo yoghurt? Allora ho cercato la ricetta della torta e ho visto che – e qui chiedo scusa ai pasticceri che stanno leggendo – non c’era poi una gran differenza negli ingredienti e nel procedimento. Ma le forme sono diverse e il nome, le parole che usiamo, sono diversi.

Come spesso mi accade, questo banale episodio mi ha fatto riflettere più in profondità su come le parole possano modellare la realtà, che a sua volta influenza i nostri comportamenti. Quante volte, soprattutto in questi momenti difficili, di cambiamento, descriviamo ciò che succede in maniera negativa e di conseguenza ci mettiamo sulla difensiva? O al contrario, quando descriviamo una situazione in maniera positiva ci sentiamo capaci di gestirne o affrontarne anche gli aspetti negativi?

Le parole sono potenti. Le parole che nella nostra mente formano un pensiero sono la prima cornice con cui interpretiamo la realtà.

Quando nella formazione o nel coaching parlo con le persone che vogliono migliorare la propria efficacia personale o le performance lavorative, queste iniziano a parlare di cosa fanno e di quanto il loro comportamento sia in funzione del contesto in cui si trovano. Il mio lavoro sta nell’aiutarle a guardare ancora oltre: a come il contesto (che pure è formato da persone, culture, modi di fare che non sono sotto il nostro diretto controllo) assuma un significato in base a come loro lo interpretano, ed è quello che influenza il loro comportamento, non un qualcosa che esiste al di fuori di loro.

“Non vediamo le cose come sono; le vediamo come siamo noi”

(Anaïs Nin, scrittrice, 1903-1977).

Ognuno di noi indossa degli occhiali che costruiamo, ripariamo, smontiamo e rifacciamo lungo tutto il corso nella nostra vita. La struttura di base è quella che si forma nella prima parte della nostra vita, in cui si forma il carattere, la personalità, in cui si assorbono dei valori e un modello sociale dalla nostra famiglia, prima, da altre persone significative, poi. Il punto è che non sempre ci rendiamo conto di avere gli occhiali sul naso, perché oramai ci siamo abituati al loro peso e al modo di vedere che essi ci consentono. Non ci chiediamo se vediamo bene, se potremmo vedere meglio, li consideriamo il nostro punto di partenza per guardare al di fuori; dobbiamo invece soffermarci a guardare le lenti con cui guardiamo.

Quello che mi ha affascinato sin dall’inizio della cosiddetta “psicologia positiva”, e che mi ha spinto a voler studiare e certificarmi come Strengths Coach, è quello di analizzare la psicologia umana non partendo da ciò che non funziona, da ciò che si “rompe”, ma chiedendosi: “cosa rende una persona un talento?”. Ogni volta che partiamo a lavorare su noi stessi guardando quello che non sappiamo fare, i nostri limiti, formiamo una cornice interpretativa di noi stessi come “mancanti”, “perdenti”. Se invece partiamo guardando a ciò che sappiamo fare, ai nostri talenti, la cornice diventa quella del “talento”, del “successo”. Se abbiamo successo in qualcosa, se riusciamo a fare in maniera eccellente qualcosa, che risorse stiamo mettendo in campo? Che parole utilizziamo per superare le difficoltà e i problemi in quei contesti? Cosa ci dà fiducia? Rispondendo a queste domande possiamo andare alla radice del nostro talento, trovando quelle risorse che poi possiamo impiegare laddove invece non riusciamo, laddove non sappiamo come fare.

Questo modo di procedere, però, ci mette ad un certo punto di fronte a una parola che la nostra cultura sta cercando di cancellare: limite. Ognuno di noi ne ha e bisogna farci i conti. Non facciamoci ingannare dagli slogan “no limits”, “puoi essere tutto quello che vuoi”… perché ad un certo punto rimarremo delusi, e quella delusione sarà come una porta che sbattendo sulla nostra faccia infrangerà in mille pezzi la cornice interpretativa positiva che tanto ci era costato costruire.

Il limite è quello che canalizza il nostro talento e lo rende più potente laddove lo riusciamo ad esprimere, come gli argini di un fiume che indirizzano la potenza dell’acqua, facendole trovare, scavare, una strada verso il mare.

Il limite più depotenziante che possiamo invece costruire noi stessi è quello che per raggiungere il successo personale o lavorativo (e qui preferirei usare la parola “compiutezza”, in quanto successo ci rimanda in automatico a dei modelli socialmente imposti) dobbiamo essere bravi come o più di qualcun altro. Il paragone è come un masso che va a ostruire completamente il nostro fiume.

Ciascuno di noi è unico, con i suoi talenti e i suoi limiti. Mi viene in mente il dramma delle ragazze (principalmente, ma la cosa coinvolge anche i ragazzi) che dagli anni ’90 del secolo scorso, per essere belle come le modelle o le star, si sono infilate in tunnel di disturbi alimentari che sono diventati una vera e propria piaga sociale; ci sono voluti decenni per poter riaffermare la bellezza del corpo in tutte le sue forme, eliminando la dittatura del canone estetico unico.

Ci lamentiamo tanto oggi della “dittatura sanitaria” ma non ci lamentiamo affatto delle tante dittature che impongono un modello unico di successo e benessere a cui tendere.

Fermiamoci. Un minuto al giorno basta. Ripensiamo alle parole che definiscono le nostre azioni, il nostro contesto, le relazioni con chi abbiamo accanto. Possiamo cambiarle? Quali parole potenziano i nostri talenti unici e quali li affossano?

Ognuno è unico perché unico è il contributo che può portare e di cui ha bisogno il mondo.

Se ci fermiamo alle azioni, al fare, allora è vera la frase “tutti sono utili, nessuno è indispensabile”. Noi non siamo macchine che funzionano, che vengono al mondo per la loro utilità, ma siamo esseri umani, che vengono al mondo per arricchirlo e lasciare un’impronta che altrimenti nessun altro potrà lasciare.

Tutto…e il contrario di tutto

In queste settimane è impossibile non imbattersi in video o articoli che citano le contraddizioni dei politici, dei personaggi pubblici e dell’ “uomo di strada” riguardo al COVID-19: si va dalla minimizzazione della malattia in sé e dell’utilità delle relative misure preventive alla catastrofe generale e all’invocazione di misure drastiche.

In tutta questa confusione, come scegliere? Cosa scegliere? E soprattutto: scegliere o non scegliere?

Ci troviamo, se non altro noi del cosiddetto mondo occidentale, in una condizione di accesso a molteplici fonti di informazione, e mai come prima d’ora nella storia a un’incredibile (a volte insostenibile) quantità di dati, opinioni, argomentazioni. Tutto ciò è legato alla nostra libertà individuale, diritto sacrosanto e di cui non ancora tutta l’umanità può godere: dovremmo esserne felici, no? No. Non sempre, almeno.

Un libro interessante che parla di libertà di scelta si chiama “Il Paradosso della scelta” (The paradox of choice) di Barry Schwartz, psicologo e professore statunitense. La tesi fondamentale del libro è che sebbene ogni persona aneli ad ampliare la sua libertà individuale, quando si trova di fronte a innumerevoli opportunità, paradossalmente si sente peggio rispetto a quando ha davanti un numero più limitato di opzioni fra cui scegliere. Innanzitutto si può innescare quel senso di “paralisi” che impedisce la scelta: ad esempio, nella ragguardevole varietà di tipologie di mascherine di protezione ad oggi in vendita, tante persone non sapendo cosa scegliere, alla fine si lasciano guidare da criteri che poco hanno a che vedere con la funzione del dispositivo, come ad esempio una svendita in farmacia, il fatto che qualcuno della cerchia delle persone fidate l’ha comprata, l’aspetto estetico. Perché quando ci troviamo di fronte a opzioni molteplici e con caratteristiche molto differenti fra loro, anche se pensiamo di fare una scelta razionale, quella scelta è in larga parte guidata dalla nostra parte emotiva. Citando Daniel Kahneman, “di fatto, non prendiamo decisioni sulla base delle esperienze che abbiamo vissuto, ma sulla base dei ricordi che abbiamo di quelle esperienze”; ricordi che spesso sono ammantati di emozioni.

Schwartz poi continua dicendo che un secondo problema che si presenta di fronte alla numerosità delle opzioni è il senso di frustrazione che si prova quando alla fine si decide, in quanto, insieme agli aspetti positivi dell’opzione scelta, ci prendiamo anche quelli negativi, che vanno in un qualche modo a rafforzare gli aspetti positivi delle opzioni che non abbiamo scelto, insinuando costantemente il dubbio di non avere scelto la cosa “giusta”. Nel dibattito pubblico, questo aspetto sembra irrilevante, in quanto sentiamo un personaggio prendere una posizione e dopo qualche giorno sostenere esattamente l’opposto, brandito con la stessa sicurezza di ciò che aveva sostenuto in passato, come se ciò che è finito in fondo ai risultati di Google fosse finito anche in fondo alla memoria di tutte le persone. Però possiamo comunque osservare questo fenomeno nella dialettica – se così si può dire – fra le varie forze politiche, in cui di ogni decisione vengono sottolineati glli aspetti negativi o quelli non del tutto presi in considerazione, creando una comunicazione spesso basata sulla giustificazione della scelta più che sui benefici della stessa (aggiungo: rinforzando nelle persone un senso di sfiducia nei confronti dei politici e della politica più in generale). Perché questo accanimento verso gli aspetti negativi di ogni singola scelta? In quanto, come Schwartz dice, tutta questa scelta fa alzare le nostre aspettative, tanto che miriamo sempre di più alla perfezione: se esiste un solo paio di jeans, afferma nel suo TED, anche se non ci calzano a pennello ce li facciamo andare bene comunque; ma se possiamo scegliere fra una quantità esorbitante di tipologie di jeans, perchè accontentarci?

Quindi, torniamo alle domande iniziali? Se cercando troviamo tutto e il contrario di tutto, come scegliere?

La tesi da cui parte “Overcrowded” di Roberto Verganti, prefessore di Leadership and Innovation al Politecnico di Milano, è che in un mondo così pieno nuove idee, il vantaggio competitivo non sta nel generarne di ulteriori, ma nell’attribuire significati nuovi alle idee, ai prodotti, ma aggiungerei anche alle situazioni.

“Un leader è un fornitore di senso” (Karl Weick): ecco ciò di cui abbiamo bisogno. Il superamento della paralisi della scelta, della sfiducia nella dirigenza politica o medica, del senso di frustrazione che ogni tanto noi tutti proviamo, si può ottenere non tanto concentrandosi sulle soluzioni (cosa), ma sul perché dobbiamo prendere tali decisioni.

Facciamo un zoom-in e smettiamo per un attimo di pensare alle scelte che i governanti o le personalità pubbliche prendono, per vedere come questo si applica anche alla vita di ciascuno di noi.

In questo momento io sono in quarantena perché ci sono stati dei casi di COVID19 nella classe di mia figlia; tra l’altro se anche non fossi stata costretta in casa per questo motivo lo sarei per via delle restrizioni attualmente in atto nella mia come in altre regioni italiane. Nelle restrizioni come mi sento? Il fatto che non possa andare al ristorante o a trovare gli amici o nello studio a praticare yoga mi fa sentire in trappola? No, perché ho trovato una motivazione al mio comportamento che si avvicina ai miei valori, ovvero che il mio è un atto di gentilezza verso gli altri: potrei propagare il virus e far ammalare qualcuno che come me ha delle passioni, responsabilità, magari una famiglia o delle persone di cui prendersi cura… Ovviamente questa è la mia motivazione, quella che mi dà forza per affrontare ogni momento, è il raccordo che rende anche questa esperienza parte del racconto della mia vita.

Approfittiamo allora di questo tempo che le restrizioni ci regalano per fare chiarezza in noi, su ciò che conta davvero, sui nostri valori: solo così potremmo trovare un perché che ci faccia trovare una rotta in questo mare di informazioni e avvenimenti… che ne dite?