Mettersi all’opera o raggiungere il risultato?

Molti di voi, leggendo questo titolo, si saranno chiesti perchè ho usato la congiunzione “o”.

Forse avrebbe più senso usare “e”, o la preposizione “per”, giusto?

In teoria, concordo. In pratica, mi rendo conto che tante volte queste due azioni sono in contrasto: vi è mai capitato di lavorare tanto su un progetto, metterci impegno, energia, tempo… per poi ritrovarvi in un punto molto lontano dall’obiettivo del progetto stesso. Non sto parlando solo dell’ambito professionale, ma anche di obiettivi personali, come ad esempio scrivere un romanzo, perdere alcuni chili di troppo, allenarsi per una maratona…

Come mai?

Sulla base della mia esperienza questo accade per due motivi:

  1. Diamo poco spazio al pensiero, preferendo passare subito all’azione;
  2. Seguiamo consigli, percorsi, metodi che probabilmente sono stati validi per altri prima di noi, ma non vanno bene per noi.

Riguardo il primo punto, mi viene subito in mente l’ambito professionale. Tante volte mi è capitato di imbarcarmi in progetti senza che ci fosse stato il dovuto tempo per pianificare, analizzare, insomma “pensare”… Una volta, un docente a un corso di Time Management ci disse: “ma voi lo sapete che la vostra azienda vi paga per pensare?”; sul momento ci venne da ridere, gli rispondemmo cose del tipo “ci pagano per portare risultati” oppure “non siamo mica all’università” e via dicendo.

Oggi, però mi rendo conto che sempre più le aziende hanno bisogno di teste pensanti, che sappiano guardare con occhio critico a ciò che stanno facendo, siano essi lavoratori in produzione o in ufficio, e sappiano prendersene la responsabilità. Credo fermamente che la “accountability” sia una delle sfide del nostro tempo (lo scrivo in inglese perchè in italiano non c’è una parola a parte “responsabilità” che possa descrivere la responsabilità di ciò che si pensa, produce, fa). Per creare accountability c’è bisogno di prendersi tempo per pensare, analizzare.

Anni fa, in un’azienda di produzione, iniziarono a coinvolgere tutte le persone di produzione per creare una cultura nuova della sicurezza, visto che l’incidenza degli infortuni (anche se non gravi) stava aumentando. Quello che emrse in maniera chiara non era che mancassero le protezioni, le norme di comportamento, i dispositivi di protezione individuale, ma mancava l’attenzione delle persone verso quei comportamenti “leciti” che tuttavia potevano rappresentare un pericolo per la salute e la sicurezza degli altri. Esempio banale: il modo di impilare gli scatoloni di prodotto. Non c’entrava direttamente con la sicurezza, ma farlo in modo diverso poteva aiutare ad evitarne il rovesciamento in caso di urto o che qualcuno ci inciampasse sopra, quando le pile erano basse. Il tasso di infortuni si abbassò drasticamente e le persone si sentirono tutte ugualmente responsabili della sicurezza sul lavoro: non era più solo un affare del Responsabile Servizio Prevenzione e Protezione dell’azienda.

Vi faccio un altro esempio, più quotidiano: la spesa settimanale. In questo periodo di quarantena, per cercare di uscire il meno possibile, in famiglia abbiamo rafforzato l’abitudine di andare a fare la spesa solo una volta a settimana, a volte anche una volta ogni 10 giorni. Già prima, per ragioni di tempo, lo facevamo, ma poi capitava che rientrando dall’ufficio si passase a prendere “al volo” un po’ di pane, della frutta, un cartone di latte… Ora, si può procedere con un minimo di preparazione (esco e vado, magari se riesco prendo i sacchetti che ho già a casa), con il rischio poi di arrivare a casa e rendersi conto puntualmente che ci siamo scordati qualcosa. Allora la seconda volta ci facciamo una lista della spesa guardando ciò che ci manca in casa o sta per finire, e soddisfatti arriviamo a tre giorni dopo con nel frigo degli ingredienti che non sappiamo come mettere insieme per una ricetta soddisfacente (della serie: come combino un porro, una scatola di mais e della farina?). “Pensare” alla spesa per me vuol dire questo: quali sono i miei obiettivi? 1) andare a fare la spesa il meno possibile; 2) cucinare pasti decenti per tutta la famiglia; 3) evitare gli sprechi alimentari.

La soluzione che ho trovato è fare la lista della spesa avendo già un menù settimanale; quello che invece riguarda la cura della persona e della casa viene riacquistato quando inizio l’ultima confezione disposnibile in casa. È vero, richiede tempo prima – che sughi preparare, quando fare un piatto e quando un altro, i gusti di tutti i membri della famiglia… – ma poi rende l’esecuzione molto più semplice dopo. Inoltre fare questo per me è anche un atto di “accountability” verso gli altri e verso il pianeta, cercando di rispettare il più possibile le norme anti-contagio e di ridurre gli sprechi alimentari.

Il senso doi responsabilità indirizza il mio agire, per cui riesco a trovare il tempo e il modo di preparare attentamente tutto ciò che servirà per l’esecuzione della spesa settimanale.

Pensate alla potenza di riuscire a fare questo in ogni ambito della vita! Come ha scritto Simon Sinek nel suo celeberrimo libro “Start with Why”, parti dal perchè fai le cose: da lì ne deriverà accountability, pensiero, motivazione… e l’esecuzione sarà molto più efficace.

Secondo fattore che può impedirci di arrivare al risultato: seguire modelli senza farli propri. Non dico che ogni giorno dobbiamo reinventare la ruota, ma spesso cerchiamo di attenerci a istruzioni, processi, modelli, consigli senza davvero ragionare sul come NOI possiamo metterli in atto, sulle nostre capacità, competenze, talenti. Il focus a quel punto diventa l’azione, più che il risultato, trovandoci quindi alla fine a non averlo raggiunto o a non sentirci completamente soddisfatti di ciò che abbiamo compiuto.

Un esempio lampante sono i vari processi di “Performance Management” che io come HR facilitavo (o costruivo). Anche il processo meglio strutturato, con il software più all’avanguardia, con le policy più innovative, lasciava un senso di pesantezza e di inutilità nel manager e nel collaboratore se il tutto si riduceva a tirare una riga nella “to do list” del manager. Altra cosa quando il manager usava quell’occasione per rafforzare con un feedback strutturato la sua relazione con il collaboratore.

Lo stesso vale quando (finalmente) ci iscriviamo in palestra e usiamo tutti gli attrezzi disponibili senza indirizzare i nostri sforzi verso l’obiettivo che vogliamo raggiungere…e gli esempi potrebbero essere molteplici.

Questo è stato il motivo principale che mi ha spinto a studiare per aiutare le persone attraverso il coaching, perchè è un modo di arrivare al risultato che si basa su tre pilastri: consapevolezza (pensiero), accountability e azione individuale.

Anche se quel che si vede e si tocca è il risultato dell’azione, non consideriamo il “pensare” come un ornamento, un inglese “nice to have”.

E per dirla con le parole di Albert Einstein:

“I problemi significativi che affrontiamo non possono essere risolti allo stesso livello di pensiero con cui li abbiamo generati. Ci si deve elevare al livello successivo.”

Ricordando “Gattaca”

Riflessioni genitoriali


La prima volta che vidi il film “Gattaca” ero al liceo. Ricordo che mi colpì particolarmente non solo per la bellezza dei protagonisti (che comunque era stato il motivo principale per cui l’avevo guardato) ma soprattutto per il tema – poi ripreso in altri film – della manipolazione genetica.

In pratica, in questo futuro non tanto prossimo, i genitori concepiscono i figli unicamente in laboratorio, selezionando i loro geni in modo che la progenie non solo sia sana e robusta, ma risponda anche al gusto dei genitori in fatto di colore degli occhi, dei capelli, di altezza… Coloro che invece vengono concepiti naturalmente, potendo essere soggetti a difetti (anche banalmente una miopia), sono catalogati come “non validi” e relegati a una classe sociale inferiore.

È giusto? È sbagliato? Perchè alcune coppie decidevano comunque di concepire i figli naturalmente?

Non voglio oggi entrare nel tema etico della manipolazione genetica, ma fare una riflessione su questo film dalla prospettiva di genitore quale sono.

Quello che sperimento vedendo i miei figli crescere è insieme speranza e timore: speranza, per il loro futuro, tutto quello che potranno fare, per il lavoro che potranno avere, per la loro realizzazione personale e il loro impatto sulla società; timore, esattamente per le stesse cose. Credo che sia un contrasto emotivo che almeno una volta hanno vissuto tutti i genitori.

Nel film si parla esattamente di questo: perchè non fare di tutto affinchè sia la speranza a vincere sul timore? Affinchè le probabilità di successo non siano il più vicine possibile al 100%?

Il punto sta proprio in quel dato: nessuno può garantire un successo al 100%. Nel film, il protagonista “non valido” incontra un “valido” che però, avendo subito un grave incidente, è paraplegico e quindi non può realizzare le sue aspirazioni di diventare un astronauta.

Come scelta personale e di coppia, non abbiamo fatto test prenatali ai nostri figli. Li avrei accettati comunque, anche malati o con difetti genetici. La mia difficoltà, però, sta nell’accettarli comunque per le scelte che – anche se ancora bambini – fanno. Perchè non sono gentili l’uno verso l’altra? Perchè mi dicono bugie? Perchè non fanno qualcosa di costruttivo invece di fare i “coach potato*”?

(*espressione che mi piace un sacco: patata da divano, ottima metafora)

Credo che la risposta sia che le scelte dei figli mi sembrino “controllabili”, a differenza del loro corredo genetico. In quanto variabili controllabili, dovrebbero andare secondo l’educazione, i modelli e l’esempio forniti. E quando non è così, la speranza lascia spazio alla paura.

La paura è potente. La paura ha fatto sì che il cervello dell’uomo evolvesse. La paura fa rilasciare l’adrenalina, ormone che ci aiuta a compiere sforzi fisici enormi, sopportare il dolore, acuire tutti i sensi. La paura però porta anche a metterci sulla difensiva, a innalzare muri relazionali, a non fidarci, a voler ridurre tutto e tutti sotto il nostro controllo.

In questo momento di quarantena – ormai è più di un mese che i bambini non escono dalle 4 mura di casa, molto di più che non vanno a scuola o fanno sport – la loro capacità di gestire le emozioni, la fatica, la solitudine, l’attenzione nel fare i compiti è messa a dura prova e quindi sono più facilmente irritabili, emotivi, arrabbiati.

Non posso guardare la loro indolenza con il filtro della paura. Non sarà un compito fatto male oggi a pregiudicare la loro capacità di imparare in futuro; non sarà lo scatto d’ira ad aprire le porte a un futuro di delinquenza.

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Quello che maggiormente li può aiutare è che io li guardi attraverso le lenti della speranza e della fiducia.

Solo così le regole, l’educazione, la conoscenza non saranno per loro cose da cui difendersi, ma strumenti che li aiuteranno ad affrontare la vita, consci che i loro genitori li supportano.

Si sentiranno accettati, sia per il loro corredo genetico che per le loro scelte.

La penuria di lievito, una riflessione sul Talento

Nelle situazioni straordinarie come quella che stiamo vivendo, ogni società si “attacca” a qualcosa di diverso. C’è chi ha dato l’assalto alle armerie. Supermercati in cui è sparita in pochi giorni la carta igienica. In Italia, è esaurito il lievito.

Ma la mia riflessione non sta tanto sui novelli pizzaioli o i riscoperti panificatori italiani, sta nel fatto che – dopo un primo momento di sgomento – hanno iniziato a fioccare ovunque (social, chat di gruppo ecc) ricette per fare il pane e i dolci senza lievito o come anche utilizzare agenti lievitanti alternativi.

Questo mi ha fatto riflettere e spinto a scrivere questo post.

Il lievito mancante è la nostra famosa “area di miglioramento”, per essere politically correct, o la nostra “debolezza” per dirla alla vecchia.

Quante volte sul lavoro, ma anche in contesti diversi, ci è stata fatta notare? E ci è stato chiesto di migliorarla? “Sei poco empatico! Devi essere più empatico!” “Perchè sei così poco proattivo? Non dici mai niente alle riunioni! Di cosa hai paura?” e così via. E quante altre volte, nonostante i nostri sforzi, il miglioramento atteso è stato sotto le aspettative?

Il punto è che esistono agenti lievitanti alternativi. Sì, non è la stessa cosa, sì sono pù complicati, ma esistono.

Questo vale anche per noi, nella gestione dei nostri Talenti.

Da quando mi sono avvicinata alla metodologia “CliftonStrengths”, che prende il nome dallo psicologo Don Clifton, ho avuto una rivelazione su un altro modo in cui lo sviluppo personale può prendere forma. Ovvero, lavorare sui punti di forza, sui Talenti, invece che concentrarsi sui punti di debolezza.

Cosa cambia? TUTTO.

Prima scoperta: investire sui propri punti di forza aiuta a focalizzarci sul positivo, su ciò che già possediamo come Talento individuale, e questo è davvero un propulsore della motivazione. Quante volte abbiamo associato al “piano di sviluppo” un senso di frustrazione? Della serie: se ho bisogno di un piano di sviluppo vuol dire che c’è qualcosa che non va. Proviamo invece a pensare al piano di sviluppo come alla ristrutturazione e all’ampliamento di una casa: le fondamenta, i muri portanti, il tetto già ci sono, è solo questione di esaltarne la bellezza, di sostituire qualche parte rovinata, di ampliare qualche locale che è diventato troppo stretto.

Il piano di sviluppo quindi diventa: dato che ho già dei Talenti, proviamo a svilupparli ancora in modo che mi aiutino ad essere sempre più efficace nelle situazioni quotidiane (nelle relazioni, nelle decisioni, nel perseguire in generale degli obiettivi).

A questo punto la domanda – come direbbe qualcuno – sorge spontanea: e quello che manca? Se io devo prendere una decisione ma non sono abbastanza analitico?

Seconda scoperta: non c’è un solo modo di fare le cose. Ognuno di noi è diverso e ha le capacità per ottenere dei risultati. C’è chi ha le capacità per seguire la “strada maestra”, ovvero la via più consolidata, più conosciuta per fare le cose – se devo fare la pizza in casa, compro il lievito di birra fresco – e chi invece deve seguire vie secondarie, o addirittura tracciarne una nuova – vedi l’uso dei lievitanti alternativi.

Quindi se devo prendere una decisione ma non sono una persona analitica, cosa posso fare? Magari ho un talento per proiettarmi in avanti e immaginare come vorrei che fosse il futuro dopo la mia scelta; oppure sono una persona che apprende attraverso gli altri e chiedendo a persone di cui mi fido posso chiarirmi meglio le idee; magari ancora sono una persona che fatica a vedere la decisione nel dettaglio se non inserita in un quadro più ampio, che dà una prospettiva e una importanza diversa alla scelta stessa.

Lavorare sulle strade alternative è più faticoso, perchè spesso non c’è un esempio da imitare e ancor più spesso le persone intorno tenderanno a darti un feedback rispetto sempre alla soluzione consolidata: eppure, imparando ad allenare i propri talenti, ogni persona potrà trovare una modalità efficace e propria per dare un contributo alle situazioni che sarà – come ogni individuo – unico.

Cogliamo l’opportunità delle mancanze – che sia del lievito o dell’estroversione, l’analiticità, l’empatia – per trovare modi nuovi ma non meno efficaci per affrontare le situazioni.

Continuerò nei prossimi post a parlare di Talento, continua a seguirmi!