Il “tran-tran”

“Non viene per ogni organismo il momento in cui subentra la normale amministrazione, il tran-tran?”

(La giornata di uno scrutatore, I. Calvino)

Il tran-tran, la normale amministrazione, la routine: che noia, vero? L’espressione onomatopeica del titolo di questo post deriva dal rumore ripetitivo di una macchina, come ad indicare qualcosa di meccanico che va avanti perché deve, perché è stata impostata così.

Da qui il bisogno di evasione, di scelta, di libertà, che spesso però è stato ridotto all’attesa del weekend,  delle vacanze estive, del ponte primaverile. Come se esistesse una vita vera – l’evasione – e una vita finta, meccanica, ripetitiva. Eppure noi spendiamo molto più tempo nella seconda che nella prima, se consideriamo “tran-tran” il tempo del lavoro, del mangiare e dormire, del fare la spesa e le pulizie di casa, il tempo passato in macchina per gli spostamenti quotidiani… non è un po’ triste? Cosa fare?

Chiunque fa sport o svolge la professione del coach, come me, sa bene che l’allenamento è fondamentale per migliorare e aumentare le prestazioni. Non posso improvvisarmi maratoneta da un giorno all’altro, così come non posso intraprendere un cambiamento duraturo nel mio modo di comportamenti solo perché lo decido. Semplicemente fallirei. È l’allenamento che fa la differenza, e qualsiasi tipo di allenamento prevede – ahimè! – la ripetizione. La ripetizione di un gesto, di un processo, di un atteggiamento è quello che ci serve per imparare a farlo sempre meglio, fino a renderlo una scelta automatica.

Ripetizione, automazione… forse il tran-tran allora non è così negativo. Il punto per me è viverlo in maniera consapevole.

Quando ad esempio mi confronto con manager d’azienda in merito allo sviluppo del potenziale dei loro team, l’obiezione che mi viene posta con più facilità è: “sì è molto bello, ma richiede tempo e io devo fare un sacco di cose.” Come se, di nuovo, ci fosse una contrapposizione fra l’operatività quotidiana e la relazione con i collaboratori, come se quest’ultima fosse un momento di vero esercizio della leadership mentre il resto fosse parte del grande calderone delle cose da fare.

Smettiamo di vedere contrapposizioni. La vita è il tran-tran e l’evasione, il ruolo del manager (ma in generale, di chiunque svolga un lavoro) è operatività e relazione. Pensare in maniera duale ci limita, perché ci fa inquadrare ciò che è ripetitivo come un male inevitabile, che subiamo e non scegliamo, e questo non è vero.

Il tran-tran è proprio l’occasione che ci viene data ogni giorno per allenarci. Sono ore e ore di palestra incluse nel prezzo. Vorrei dedicare più tempo a quel collega, che fatica a raggiungere i suoi obiettivi? Non devo “ritagliarmi” degli spazi extra in agenda, basta che consideri ogni occasione in cui ho a che a fare con quella persona come a un’occasione di sviluppo. Quindi invece che semplicemente dire cosa fare, chiedere all’altro come lo vorrebbe fare e dare dei suggerimenti per rendere la sua idea più efficace ed efficiente. Invece che arrivare alla riunione con già le decisioni prese, utilizzare quel momento per far emergere punti di vista e proposte dagli altri. E la cosa bella è che, di occasioni come queste ne ho a bizzeffe, perché fanno parte di quella routine che tanto odiavo! Non mi riesce la prima volta? Riprovo, ancora e ancora. Perché ci si può allenare sempre, siamo già in palestra.

Altro esempio: mi sento come incastrato in un lavoro poco stimolante, mentre io mi sento una persona più creativa? Ottimo! La creatività nasce dai vincoli. Non c’è bisogno di creatività se è già tutto realizzato come lo vogliamo noi. Quando qualcuno è davvero creativo, lo è perché è in grado di “definire e strutturare in modo nuovo le proprie esperienze e conoscenze”(enciclopedia Treccani): non solo alcune esperienze, ma tutte!

“Tutto il resto è giorno dopo giorno, e giorno dopo giorno è silenziosamente costruire. E costruire è sapere, è potere rinunciare alla perfezione”

(Costruire, Niccolò Fabi)

Proviamo, un giovedì qualsiasi di una settimana qualunque a chiederci: cosa posso allenare oggi? In quello che sto per affrontare, nella mia quotidianità cosa posso costruire?

E ogni sera, poco prima di chiudere gli occhi, poter dire: anche oggi è stata una giornata di vita vera, più di ieri e meno di domani.

Cosa ho fatto finora?

Vi siete mai posti questa domanda? Magari a fine giornata, a fine mese, guardando l’agenda, o in concomitanza di un anniversario? Io sì, sì, e ancora sì. Sono ormai due anni che mi sono messa in proprio, e quando ho preso la decisione di cambiare, mi sono detta: farò un bilancio fra due anni, per vedere come sono partita in questa nuova fase della mia carriera. E ora che i fatidici due anni stanno per finire, arriva la domanda: cosa ho fatto finora? Tante cose le ho fatte, tante cose che mi ero proposta di fare no. Perché non le ho fatte? (Qui subentra il mio cervello razionalizzante, quello che incarta le decisioni di pancia in una confezione dal look razionale-accettabile): c’è stato il COVID, sono ancora all’inizio, sto dedicando più tempo ai miei figli… Eppure la sensazione che potevo fare di più resta. Il rimorso di aver fatto la scelta sbagliata si affaccia nella mia mente. L’idea che io sia incapace di fare questo lavoro è lì.

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MA.

Di solito non mi piacciono i MA, perché rinnegano tutto quello che c’è stato prima, tuttavia dato che le premesse erano negative un MA ci può stare.

Il mio “MA” è questo: la vita va avanti.

Semplice, lineare, ovvio. Ritornare a questo semplice pensiero mi aiuta a mettere un punto e ad andare a capo, come mi insegnò la mia maestra alle elementari. Mi aiuta a cambiare la domanda: da “cosa ho fatto finora?” a “Cosa voglio fare da ora in poi?”. Questo passaggio è importante perché reindirizza la mia attenzione verso il presente e il futuro, senza sprecare altro tempo a cercare nei fossi il senno di poi.

È la domanda che mi sono fatta oggi, guardando il blog fermo a un post datato oltre 6 mesi fa: cosa posso scrivere da oggi in poi? E subito mi è venuta voglia di scrivere questo post. E mi sono concessa il tempo di farlo.

Quando osservo mio marito, ammiro fra le altre cose la sua determinazione nel perseguire gli obiettivi, che siano lavorativi o personali. Per lui la gestione del tempo sembra naturale, cosa che per me non lo è affatto. Io sono continuamente distratta dalla “Scimmia della gratificazione istantanea” come la chiama Tim Urban in un famoso TED Talk, che mi tenta continuamente con attività di breve termine invece che mantenermi focalizzata sugli obiettivi di medio-lungo termine. Non è vero che non ho tempo di farlo, è che in realtà molte volte non so come farlo, quindi devio su cose che so fare, che mi gratificano perché non mi fanno sentire incapace. Almeno in quel momento, almeno fino a che non mi faccio la domanda “Cosa ho fatto finora?”.

Ecco allora ciò che mi fa cambiare prospettiva: il mio perché. La mia guida, il mio faro, la mia vera motivazione interna. Non è qualcuno o qualcosa che mi dice cosa fare e quali scadenze ho, ma sono i miei valori che definiscono il percorso e il metodo di assegnazione delle priorità. È come fare reverse-engineering partendo dalla visione di me che riesce a raggiungere un determinato obiettivo, definito dai miei valori e dalle mie capacità (attuali o potenziali). Per come sono fatta io, se non ho chiaro questo perché e gli obiettivi che ne derivano, mi faccio catturare dalla Scimmia di cui sopra.

Pianificare senza scadenze predefinite non è sempre facile, mentre è facile riempire un generico DOPO di cose da fare. Il punto è che io non lo posseggo il DOPO, non ce l’ho né l’avrò mai. Lo posso immaginare, posso fare sì che mi guidi nel presente, posso anche piantarci degli obiettivi, eppure per il fare ho in mano solo il presente e il mio perché.

“Chi ha un perché abbastanza forte, può superare qualsiasi come”

F. Nietzsche

Una volta inquadrato il perché, per affrontare un percorso sostanzialmente inesplorato, nuovo, faccio appello alle mie risorse: situazioni simili già vissute in passato, libri e articoli di esperti, il dialogo sincero e generativo con le persone di cui mi fido, contaminazione… connessione di puntini. Raramente non sono riuscita ad uscire dai problemi o da situazioni complicate usando questo metodo.

L’ultimo passaggio: adesso che ho la meta, il percorso (più o meno definito), i valori che mi fanno da guardrail, devo mantenere il focus anche quando arriva la scimmia. Quindi è qui che entrano gli strumenti più o meno innovativi per gestire il tempo, non sono il primo punto ma l’ultimo, perché è inutile avere tante to-do list e promemoria che non sono legati a qualcosa di più profondo e significativo: si staccheranno, come un post-it vecchio dall’agenda dell’anno scorso.

L’abit(udine) non fa il monaco

Dopo il post dell’altro giorno, in cui ho citato l’etimologia della parola “grazie”, mi sono incuriosita a proposito dell’origine di altre parole. E sono “inciampata” in questa: abitudine.

Secondo l’enciclopedia Treccani, il termine è dal latino habitudo (da habitus, “qualità, caratteristica, aspetto”, a sua volta derivato da habere, “avere, possedere”). Quindi la parola abitudine in italiano significa sia il possesso di una caratteristica stabile, di un’attitudine naturale o acquisita per qualcosa, sia la consuetudine a essere e agire in un certo modo. Nel parlare comune, tuttavia, questa parola viene più spesso impiegata in riferimento a un’azione o a una serie di azioni (ho l’abitudine del fumo, ho l’abitudine di andare a correre ogni mattina) piuttosto che a una caratteristica stabile (quante volte avete parlato con un’amica dell’abitudine del corpo per riferivi alla postura? Personalmente, mai!).

Le abitudini nascono dalla ripetizione di un comportamento, ripetizione che si attua a seguito di un incentivo, sia esso negativo o positivo. Chiaro esempio di questo è stata l’introduzione dell’obbligo della cintura di sicurezza in auto: se prima ogni volta dovevamo ricordarci di farlo, ci sembrava scomodo, avremmo preferito evitare, adesso se saliamo in macchina e non allacciamo la cintura sembra che ci manchi qualcosa e ci sentiamo quasi a disagio. Questa è un’abitudine che non nasce da una ricompensa (se non il pensiero, che sembra sempre lontano da noi, che in caso di incidente avremmo molte più probabilità di salvarci la vita) ma piuttosto da un incentivo negativo (la multa e la decurtazione dei punti dalla patente). Molte altre volte invece le abitudini nascono da incentivi positivi, ovvero dal senso di soddisfazione personale che traggo dall’azione (come la carica di energia e benessere che mi dà l’allenamento fisico quotidiano).

Ma perchè scrivere delle abitudini? Perchè le abitudini rafforzano i collegamenti neuronali legati all’azione stessa, permettendo di creare delle automazioni (non devo ogni volta pensare a come impugnare la matita per scrivere) e quindi di apprendere.

Questo è il punto: non demonizziamo per forza tutte le abitudini. Quante volte la parola “abitudinario” è pronunciata con un’accezione negativa? Abitudine è parlare e pensare in un’altra lingua come fosse quella madre, abitudine è correre 10 km ogni giorno senza farsi venire i crampi, abitudine è andare in bicletta senza perdere l’equilibrio mentre si presta attenzione al traffico.

Quand’è che allora le abitudini dventano “cattive”?

Quando gli automatismi del nostro cervello ci portano a compiere comportamenti inefficaci sul piano del compito o della relazione: potrebbe essere che al momento dell’apprendimento quell’azione fosse efficace rispetto al contesto e agli obiettivi, ma col mutare delle situazioni non lo sia più; potrebbe anche essere invece che l’azione appresa sia stata dettata dalla paura e che quindi l’abitudine abbia rafforzato un comportamento di difesa e diffidenza.

Faccio un esempio che mi riporta a quando lavoravo in azienda.

In un team entra una persona nuova, fresca fresca di laurea. Il suo manager, per aiutare il nuovo arrivato ad essere operativo, pianificherà molti incontri di allineamento sulle attività, in modo da capire come la persona stia andando e se abbia bisogno di un aiuto. Col tempo, però, il manager prende questa frequenza di incontri come una modalità operativa automatica, anche se oramai il suo collaboratore non è più “il nuovo arrivato” e inizia a sentirsi soffocato da questa prassi – che probabilmente interpreta come attività di controllo. Quindi inizierà a percepire (forse in maniera non del tutto conscia) il comportamento del suo manager come di uno che non si fida di lui e delle sue possibilità e inizierà a partecipare agli incontri one-to-one stando sempre sulla difensiva, in modo da “proteggersi le spalle”: attenersi a quanto richiesto, non uscire dal seminato.

Il risultato di queste abitudini? Relazione difficoltosa, conflitto, incapacità di condivisione di idee da parte del collaboratore e ulteriore stretta nel controllo da parte del manager, che vede quel membro del team come uno che “era partito bene, sembrava avesse del potenziale, ma guardalo adesso… fa sempre solo quello che gli dico, non si prende mai una responsabilità in più, non si butta in progetti nuovi… che peccato”.

Allora siamo condannati dalle nostre abitudini? Da un lato sono un segnale che abbiamo interiorizzato una competenza, dall’altro ci portano a degli automatismi che ci rendono poco efficaci… che fare?

E qui entra in gioco la consapevolezza. Come coach, mi accorgo spesso che tutti noi in maniera involontaria o volontaria (in quest’ultimo caso, perché ci siamo creati una comfort zone dalla quale non vogliamo uscire) abbassiamo il nostro livello di consapevolezza dato che questo ci fa rallentare. Ci rende meno efficienti. Prendere coscienza di ciò che stiamo facendo mentre lo stiamo facendo non è così banale come sembra, soprattutto se non ne vediamo immediatamente gli effetti negativi.

Eppure è lì la chiave: essere presenti a sé stessi e agli altri per poter agire quella libertà magnifica che abbiamo noi esseri umani – la libertà di scelta. Ecco che allora potremo interrompere l’automatismo, potremo provare strade nuove, potremo apprendere abitudini più efficaci (almeno fino al prossimo cambiamento).

L’abitudine ci guida, ma non ci definisce. Come l’abito per il famoso monaco.

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