Non è colpa del tuo capo!

Come sgombrare le relazioni in ufficio dalla frustrazione

Premesso che non amo la parola “capo” in quanto mi ricorda un concetto obsoleto di azienda, devo ammettere che ancora oggi in Italia questa parola è diffusa nelle aziende, soprattutto di matrice italiana e imprenditoriale. Ma se anche lavori in una multinazionale dove si parla solo di manager e leader, coordinator e vice president, credo che tu abbia capito di cosa sto parlando.

Ho letto tantissimo sulla centralità della figura del manager nelle aziende. Sono la chiave per sviluppare le persone o per demolirle (e con esse l’azienda e la sua reputazione), sono l’ago della bilancia nelle performance e nell’engagement dei loro team, sono gli architetti dell’azienda di domani. Per questo le aziende investono – o vorrebbero farlo – così tanto in formazione manageriale, corsi di leadership, coaching ecc. Ma chi è il “capo”?

Il “capo” è la persona a cui sono stati affidati dall’azienda il potere di coordinamento delle attività e la responsabilità dei risultati di una o più persone, i suoi collaboratori.  

“Da un grande potere derivano grandi responsabilità” diceva Ben Parker al nipote Peter, ancora agli esordi della sua vita da Spider-Man. Prima di tutto vorrei riflettere su questo binomio potere-responsabilità, la cui separazione spesso è la fonte di frustrazioni sia per il manager che per il suo team di lavoro.

Da una parte il potere: il manager può fare il bello e il cattivo tempo con il suo team, dire loro cosa fare, quando e come; dire quando possono andare in ferie e quando no, dare aumenti e promozioni o bloccare una carriera all’angolo…e ovviamente più “si sale” più sono le persone sotto la sua influenza. Quante volte abbiamo detto o abbiamo sentito un college dire: “il mio capo mi ha tenuto fino alle 21 ieri in ufficio”, “dopo tutte le ore spese su quella attività, è arrivato il mio capo e ha detto che non serviva più”, “sono anni che lavoro qui e il mio capo non mi dà neanche un aumento”. Suona familiare?

Ma se tu sei un manager, quante volte hai pensato o detto: “ho detto a quella persona cosa doveva fare per filo e per segno e ancora non mi porta I risultati”, “ho dato a tutti un aumento eppure non sono mai contenti” e così via.

Tutte queste frasi che ci diciamo (o che diciamo a chiunque, appena possiamo) sono segno che del binomio potere-responsabilità stiamo considerando solo il primo fattore. Andreotti, parafrasando Charles Maurice de Talleyrand-Périgord, politico e diplomatico del 18° secolo, diceva che “il potere logora chi non ce l’ha”. L’invidia, la frustrazione, l’insoddisfazione, sono tutti I figli di questo logoramento, che alla fine stanca, spegne la passione e al contempo accende il cosiddetto “active disengagement”, altrimenti detto, il remare contro.

Ma dove è finita la responsabilità? Chi ce l’ha?

Tu.

E anche il capo. E il tuo collega. E il dirigente all’ultimo piano.

Perchè la responsabilità di come noi rispondiamo agli eventi e al potere che altri hanno o pretendono di avere su di noi è solo nostra.

Potevo non rimanere fino alle 21 ieri sera in ufficio? A meno che le 21 non siano il mio normale orario di lavoro, direi di sì. Perchè non sono andata via? Perchè se no il mio capo si arrabbiava, perchè non sarei riuscita a finire in tempo l’attività, perchè se non lo facevo io l’avrebbe chiesto al collega e mi dispiaceva… sono tante le motivazioni, fatto sta che ogni risposta che ci diamo giustifica una scelta che abbiamo fatto. Una scelta di cui dobbiamo imparare a riprenderci la responsabilità.

Così, allo stesso modo, se sono il manager che considera un “caso perso” il suo collaboratore che non performa bene da anni, mi sono chiesta cosa ho fatto per supportarlo? Se era il modo giusto? Se l’ho ascoltato veramente? Perchè poi, alla fine, I risultati mancati di quella persona sono anche I miei.

Dobbiamo recuperare il confine delle nostre responsabilità, e con esse ne deriverà anche il potere.

Non sto dicendo il potere dato (gerarchico, monetario, di status), perchè quello come viene dato viene anche tolto, è effimero, e più ne siamo attaccati più ne siamo schiavi.

Il potere a cui mi riferisco è la capacità di prendere in mano le redini della propria vita partendo dal riconoscere che la vita non mi accade, ma è un susseguirsi di mie scelte di cui mi prendo la responsabilità. Successi e fallimenti, onori e oneri.

Allora non diremo più “è colpa del mio capo…” ma potremo dire “ho fatto questa scelta”.

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