Si può avere compassione verso sé stessi?

In questo periodo, purtroppo ancora così stressante e per certi versi limitante, vedo moltiplicarsi (online e offline) incontri, webinar, corsi sulla gestione dello stress e sulla resilienza. Tra i vari articoli letti, mi ha colpito in particolare uno pubblicato dal “Greater Good Science Center” dell’Università di Berkeley, California, in cui si introduce il concetto di “Self-Compassion” (l’articolo è vecchio, perché è del 2012, ma molto interessante e attuale. Lo potete leggere in inglese qui: https://greatergood.berkeley.edu/article/item/the_power_of_self_compassion).

Kristin Neff, psicologa pioniera nello studio della Self-Compassion, afferma sostanzialmente che la nostra società (occidentale) valorizza positivamente la compassione, l’empatia verso gli altri, ma allo stesso tempo porta avanti l’idea che invece verso noi stessi dobbiamo essere severi, autocritici, a volte persino inflessibili, per evitare di ripetere gli errori e i fallimenti o indugiare nelle nostre debolezze. A questo punto vi starete chiedendo: ma cosa c’entra con la resilienza e lo stress? C’entra, nel momento in cui per reagire a una situazione stressante, agiamo in maniera che ci porta ad aggiungere stress a quello già vissuto a causa della situazione.

Prendiamo un esempio che (ahimè!) è diventato un classico in questi due anni per molte famiglie: la quarantena. La quarantena è di per sé stressante perché limita i miei spostamenti e le mie attività, e spesso si porta dietro il lavoro a distanza mentre i figli sono in DAD, il tutto condito da possibili problemi di salute. Se la mia risposta è: ok, devo gestire tutto: gli spazi per ogni membro della famiglia, l’accudimento dei malati, il coordinamento delle attività necessarie in casa – pulizie, spesa, cucinare ecc., il supporto ai figli per la DAD e i compiti, il lavoro… potrei arrivare già la prima sera ad essere esausta. Ma a quel punto, stanca e insoddisfatta per come è andata la giornata, potrei dire a me stessa: “Non hai fatto abbastanza!”, “Come fai ad essere stanca dopo solo un giorno??”, “Non ti sai organizzare!”, aggiungendo ulteriore stress e frustrazione (con l’idea che questo potrebbe servirmi come motivatore per fare meglio il giorno dopo). Invece, secondo anche gli studi della Neff, questo non fa altro che portarmi ad aumentare il senso di inadeguatezza, facendomi volgere lo sguardo più verso le mie carenze che verso le mie risorse.

E più ci focalizziamo sulle carenze, più ci sentiamo incapaci di andare oltre queste, fino ad arrivare al punto che iniziamo a cercare di evitare ogni situazione che ci faccia vivere quel senso di inadeguatezza, frustrazione, dolore. Questo può manifestarsi verso un’attribuzione della nostra frustrazione all’esterno (“la scuola dovrebbe darci un servizio, e invece se la cavano con un paio d’ore collegati al pc e poi devo fare io l’insegnante!”, “non è colpa mia se non c’è niente per cena, dovevo lavorare”), oppure bloccando alcuni processi di apprendimento (“non posso lavorare da casa, è tutto diverso, non si riesce a combinare niente coi colleghi”), oppure facendo finta che vada tutto bene, nascondendo le proprie sofferenze e sperando che le cose si sistemino col tempo (vale a dire, da sole). Queste risposte ci fanno davvero stare meglio? C’è un’alternativa?

In questi giorni sto provando a vivere la compassione verso me stessa e sto provando a spiegarla anche a mio figlio, che spesso associa i suoi errori all’accettazione da parte degli altri: della serie “se sono bravo mi accettano, se non sono bravo mi escludono”. Questo lo porta, ad esempio se prende un voto basso a scuola o perfino se perde una partita a un gioco, ad eccessi di rabbia verso se stesso o verso gli altri (passando da “è colpa tua” a “non so fare niente”).

Il primo passo è provare a chiederci: ma se io vedessi un caro amico che soffre perché non è riuscito a raggiungere il risultato voluto, perché ha fallito in qualcosa, perché si sente troppo stanco per finire quello che aveva in mente di fare, lo tratteremmo urlandogli in faccia che fa schifo o cercheremmo di consolarlo, trattandolo con gentilezza, aiutandolo a vedere le risorse che ha a disposizione per uscire da quella situazione? Credo la seconda. Allora perché non farlo anche verso noi stessi?

La dottoressa Neff ci elenca tre passaggi per praticare l’autocompassione:

  1. Mindfulness: prendere consapevolezza di quello che stiamo vivendo e di come ci fa sentire, senza giudizio. Se neghiamo di stare male, se non ci prendiamo tempo per capire quali emozioni stiamo vivendo, non possiamo provare compassione.
  2. Gentilezza: invece di prenderci mentalmente a schiaffi, proviamo a dirci che va bene provare stanchezza, dolore, rabbia o frustrazione. Le emozioni, anche quelle “negative”, sono dati che ci aiutano a capire quali sono le cose importanti per noi, i nostri valori, e quindi ogni volta che le proviamo possiamo ricordarci qual è il nostro nord e seguirlo.
  3. Consapevolezza: aiutiamoci a inquadrare la situazione per quello che è: un evento della nostra vita. Non possiamo farci descrivere unicamente dai nostri errori o fallimenti, né pensare che questi siano inevitabili: io credo fermamente che la vita sia un percorso di apprendimento che non si esaurisce mai, e gli errori sono parte di ogni processo di questo tipo. Posso dire a me stessa: mi dispiace di aver sbagliato, ma cosa ho imparato o sto imparando da questa situazione? Ne ho vissute altre simili in passato? Come le ho superate? Quali risorse, quali talenti ho per andare avanti?

Oltre a questo, pensiamo anche che non siamo gli unici al mondo a stare così, che la sofferenza, l’imperfezione, il fallimento fanno parte dell’esistenza umana così come la bellezza, la gioia e il coraggio. Ci aiuterà a sentirci meno soli e più capaci di guardare anche gli altri con la compassione che proviamo per noi stessi, aprendo la strada all’incontro invece che allo scontro.

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