Si può avere compassione verso sé stessi?

In questo periodo, purtroppo ancora così stressante e per certi versi limitante, vedo moltiplicarsi (online e offline) incontri, webinar, corsi sulla gestione dello stress e sulla resilienza. Tra i vari articoli letti, mi ha colpito in particolare uno pubblicato dal “Greater Good Science Center” dell’Università di Berkeley, California, in cui si introduce il concetto di “Self-Compassion” (l’articolo è vecchio, perché è del 2012, ma molto interessante e attuale. Lo potete leggere in inglese qui: https://greatergood.berkeley.edu/article/item/the_power_of_self_compassion).

Kristin Neff, psicologa pioniera nello studio della Self-Compassion, afferma sostanzialmente che la nostra società (occidentale) valorizza positivamente la compassione, l’empatia verso gli altri, ma allo stesso tempo porta avanti l’idea che invece verso noi stessi dobbiamo essere severi, autocritici, a volte persino inflessibili, per evitare di ripetere gli errori e i fallimenti o indugiare nelle nostre debolezze. A questo punto vi starete chiedendo: ma cosa c’entra con la resilienza e lo stress? C’entra, nel momento in cui per reagire a una situazione stressante, agiamo in maniera che ci porta ad aggiungere stress a quello già vissuto a causa della situazione.

Prendiamo un esempio che (ahimè!) è diventato un classico in questi due anni per molte famiglie: la quarantena. La quarantena è di per sé stressante perché limita i miei spostamenti e le mie attività, e spesso si porta dietro il lavoro a distanza mentre i figli sono in DAD, il tutto condito da possibili problemi di salute. Se la mia risposta è: ok, devo gestire tutto: gli spazi per ogni membro della famiglia, l’accudimento dei malati, il coordinamento delle attività necessarie in casa – pulizie, spesa, cucinare ecc., il supporto ai figli per la DAD e i compiti, il lavoro… potrei arrivare già la prima sera ad essere esausta. Ma a quel punto, stanca e insoddisfatta per come è andata la giornata, potrei dire a me stessa: “Non hai fatto abbastanza!”, “Come fai ad essere stanca dopo solo un giorno??”, “Non ti sai organizzare!”, aggiungendo ulteriore stress e frustrazione (con l’idea che questo potrebbe servirmi come motivatore per fare meglio il giorno dopo). Invece, secondo anche gli studi della Neff, questo non fa altro che portarmi ad aumentare il senso di inadeguatezza, facendomi volgere lo sguardo più verso le mie carenze che verso le mie risorse.

E più ci focalizziamo sulle carenze, più ci sentiamo incapaci di andare oltre queste, fino ad arrivare al punto che iniziamo a cercare di evitare ogni situazione che ci faccia vivere quel senso di inadeguatezza, frustrazione, dolore. Questo può manifestarsi verso un’attribuzione della nostra frustrazione all’esterno (“la scuola dovrebbe darci un servizio, e invece se la cavano con un paio d’ore collegati al pc e poi devo fare io l’insegnante!”, “non è colpa mia se non c’è niente per cena, dovevo lavorare”), oppure bloccando alcuni processi di apprendimento (“non posso lavorare da casa, è tutto diverso, non si riesce a combinare niente coi colleghi”), oppure facendo finta che vada tutto bene, nascondendo le proprie sofferenze e sperando che le cose si sistemino col tempo (vale a dire, da sole). Queste risposte ci fanno davvero stare meglio? C’è un’alternativa?

In questi giorni sto provando a vivere la compassione verso me stessa e sto provando a spiegarla anche a mio figlio, che spesso associa i suoi errori all’accettazione da parte degli altri: della serie “se sono bravo mi accettano, se non sono bravo mi escludono”. Questo lo porta, ad esempio se prende un voto basso a scuola o perfino se perde una partita a un gioco, ad eccessi di rabbia verso se stesso o verso gli altri (passando da “è colpa tua” a “non so fare niente”).

Il primo passo è provare a chiederci: ma se io vedessi un caro amico che soffre perché non è riuscito a raggiungere il risultato voluto, perché ha fallito in qualcosa, perché si sente troppo stanco per finire quello che aveva in mente di fare, lo tratteremmo urlandogli in faccia che fa schifo o cercheremmo di consolarlo, trattandolo con gentilezza, aiutandolo a vedere le risorse che ha a disposizione per uscire da quella situazione? Credo la seconda. Allora perché non farlo anche verso noi stessi?

La dottoressa Neff ci elenca tre passaggi per praticare l’autocompassione:

  1. Mindfulness: prendere consapevolezza di quello che stiamo vivendo e di come ci fa sentire, senza giudizio. Se neghiamo di stare male, se non ci prendiamo tempo per capire quali emozioni stiamo vivendo, non possiamo provare compassione.
  2. Gentilezza: invece di prenderci mentalmente a schiaffi, proviamo a dirci che va bene provare stanchezza, dolore, rabbia o frustrazione. Le emozioni, anche quelle “negative”, sono dati che ci aiutano a capire quali sono le cose importanti per noi, i nostri valori, e quindi ogni volta che le proviamo possiamo ricordarci qual è il nostro nord e seguirlo.
  3. Consapevolezza: aiutiamoci a inquadrare la situazione per quello che è: un evento della nostra vita. Non possiamo farci descrivere unicamente dai nostri errori o fallimenti, né pensare che questi siano inevitabili: io credo fermamente che la vita sia un percorso di apprendimento che non si esaurisce mai, e gli errori sono parte di ogni processo di questo tipo. Posso dire a me stessa: mi dispiace di aver sbagliato, ma cosa ho imparato o sto imparando da questa situazione? Ne ho vissute altre simili in passato? Come le ho superate? Quali risorse, quali talenti ho per andare avanti?

Oltre a questo, pensiamo anche che non siamo gli unici al mondo a stare così, che la sofferenza, l’imperfezione, il fallimento fanno parte dell’esistenza umana così come la bellezza, la gioia e il coraggio. Ci aiuterà a sentirci meno soli e più capaci di guardare anche gli altri con la compassione che proviamo per noi stessi, aprendo la strada all’incontro invece che allo scontro.

Tutto…e il contrario di tutto

In queste settimane è impossibile non imbattersi in video o articoli che citano le contraddizioni dei politici, dei personaggi pubblici e dell’ “uomo di strada” riguardo al COVID-19: si va dalla minimizzazione della malattia in sé e dell’utilità delle relative misure preventive alla catastrofe generale e all’invocazione di misure drastiche.

In tutta questa confusione, come scegliere? Cosa scegliere? E soprattutto: scegliere o non scegliere?

Ci troviamo, se non altro noi del cosiddetto mondo occidentale, in una condizione di accesso a molteplici fonti di informazione, e mai come prima d’ora nella storia a un’incredibile (a volte insostenibile) quantità di dati, opinioni, argomentazioni. Tutto ciò è legato alla nostra libertà individuale, diritto sacrosanto e di cui non ancora tutta l’umanità può godere: dovremmo esserne felici, no? No. Non sempre, almeno.

Un libro interessante che parla di libertà di scelta si chiama “Il Paradosso della scelta” (The paradox of choice) di Barry Schwartz, psicologo e professore statunitense. La tesi fondamentale del libro è che sebbene ogni persona aneli ad ampliare la sua libertà individuale, quando si trova di fronte a innumerevoli opportunità, paradossalmente si sente peggio rispetto a quando ha davanti un numero più limitato di opzioni fra cui scegliere. Innanzitutto si può innescare quel senso di “paralisi” che impedisce la scelta: ad esempio, nella ragguardevole varietà di tipologie di mascherine di protezione ad oggi in vendita, tante persone non sapendo cosa scegliere, alla fine si lasciano guidare da criteri che poco hanno a che vedere con la funzione del dispositivo, come ad esempio una svendita in farmacia, il fatto che qualcuno della cerchia delle persone fidate l’ha comprata, l’aspetto estetico. Perché quando ci troviamo di fronte a opzioni molteplici e con caratteristiche molto differenti fra loro, anche se pensiamo di fare una scelta razionale, quella scelta è in larga parte guidata dalla nostra parte emotiva. Citando Daniel Kahneman, “di fatto, non prendiamo decisioni sulla base delle esperienze che abbiamo vissuto, ma sulla base dei ricordi che abbiamo di quelle esperienze”; ricordi che spesso sono ammantati di emozioni.

Schwartz poi continua dicendo che un secondo problema che si presenta di fronte alla numerosità delle opzioni è il senso di frustrazione che si prova quando alla fine si decide, in quanto, insieme agli aspetti positivi dell’opzione scelta, ci prendiamo anche quelli negativi, che vanno in un qualche modo a rafforzare gli aspetti positivi delle opzioni che non abbiamo scelto, insinuando costantemente il dubbio di non avere scelto la cosa “giusta”. Nel dibattito pubblico, questo aspetto sembra irrilevante, in quanto sentiamo un personaggio prendere una posizione e dopo qualche giorno sostenere esattamente l’opposto, brandito con la stessa sicurezza di ciò che aveva sostenuto in passato, come se ciò che è finito in fondo ai risultati di Google fosse finito anche in fondo alla memoria di tutte le persone. Però possiamo comunque osservare questo fenomeno nella dialettica – se così si può dire – fra le varie forze politiche, in cui di ogni decisione vengono sottolineati glli aspetti negativi o quelli non del tutto presi in considerazione, creando una comunicazione spesso basata sulla giustificazione della scelta più che sui benefici della stessa (aggiungo: rinforzando nelle persone un senso di sfiducia nei confronti dei politici e della politica più in generale). Perché questo accanimento verso gli aspetti negativi di ogni singola scelta? In quanto, come Schwartz dice, tutta questa scelta fa alzare le nostre aspettative, tanto che miriamo sempre di più alla perfezione: se esiste un solo paio di jeans, afferma nel suo TED, anche se non ci calzano a pennello ce li facciamo andare bene comunque; ma se possiamo scegliere fra una quantità esorbitante di tipologie di jeans, perchè accontentarci?

Quindi, torniamo alle domande iniziali? Se cercando troviamo tutto e il contrario di tutto, come scegliere?

La tesi da cui parte “Overcrowded” di Roberto Verganti, prefessore di Leadership and Innovation al Politecnico di Milano, è che in un mondo così pieno nuove idee, il vantaggio competitivo non sta nel generarne di ulteriori, ma nell’attribuire significati nuovi alle idee, ai prodotti, ma aggiungerei anche alle situazioni.

“Un leader è un fornitore di senso” (Karl Weick): ecco ciò di cui abbiamo bisogno. Il superamento della paralisi della scelta, della sfiducia nella dirigenza politica o medica, del senso di frustrazione che ogni tanto noi tutti proviamo, si può ottenere non tanto concentrandosi sulle soluzioni (cosa), ma sul perché dobbiamo prendere tali decisioni.

Facciamo un zoom-in e smettiamo per un attimo di pensare alle scelte che i governanti o le personalità pubbliche prendono, per vedere come questo si applica anche alla vita di ciascuno di noi.

In questo momento io sono in quarantena perché ci sono stati dei casi di COVID19 nella classe di mia figlia; tra l’altro se anche non fossi stata costretta in casa per questo motivo lo sarei per via delle restrizioni attualmente in atto nella mia come in altre regioni italiane. Nelle restrizioni come mi sento? Il fatto che non possa andare al ristorante o a trovare gli amici o nello studio a praticare yoga mi fa sentire in trappola? No, perché ho trovato una motivazione al mio comportamento che si avvicina ai miei valori, ovvero che il mio è un atto di gentilezza verso gli altri: potrei propagare il virus e far ammalare qualcuno che come me ha delle passioni, responsabilità, magari una famiglia o delle persone di cui prendersi cura… Ovviamente questa è la mia motivazione, quella che mi dà forza per affrontare ogni momento, è il raccordo che rende anche questa esperienza parte del racconto della mia vita.

Approfittiamo allora di questo tempo che le restrizioni ci regalano per fare chiarezza in noi, su ciò che conta davvero, sui nostri valori: solo così potremmo trovare un perché che ci faccia trovare una rotta in questo mare di informazioni e avvenimenti… che ne dite?

Il divano

Oggi è lunedì, e questo è il primo post del mese, un mese di riacquisto di vecchie libertà e di integrazione di nuove. La scuola è finita, iniziano gli esami. Qualcuno pianifica le vacanze, qualcuno spera di poter far accedere i propri figli ai pochi centri estivi che si sono riusciti ad adeguare alle nuove norme. Qualcuno le vacanze non le vuole fare, perchè deve recuperare i mesi di chiusura forzata della propria attività.

Qualunque sia l’estate che verrà, sicuramente lasceremo quel “posto fisso” che abbiamo occupato durante la quarantena: il divano. E guardandolo, mi è venuta voglia di scrivere questo post, un po’ personale, che ha per protagonista il mio divano.

Non è un divano grande, di quelli con la penisola o con il supporto per stendere le gambe, è un divano semplice e compatto, l’unico che poteva starci nel mio salotto. Eppure è speciale: è il mio divano di fidanzamento.

Faccio qui una breve premessa: questo, come dicevo, è un post personale, che non ha intenzione di scardinare o svalutare qualsiasi tradizione legata al fidanzamento: però è una piccola riflessione che parte dal divano di fidanzamento per arrivare alla vita di coppia.

Quando ormai dodici anni fa iniziammo a parlare di matrimonio, io dissi al mio non-ancora marito che non volevo nessun anello di fidanzamento. Lui mi guardò un po’ stupito e mi chiese: “ma non vuoi nessun regalo?”

Senza neanche pensarci gli risposi: “Se proprio vuoi farmi un regalo, regalami un divano”.

La sua perplessità si mescolò alla curiosità.

“L’anello di fidanzamento “ continuai “è impari: perchè l’uomo lo deve regalare alla donna e non è uno scambio di anelli? Oltretutto, una volta sposati, avremo le nostre fedi, quindi a cosa serve un altro anello?” (premetto che sono stata io la prima a parlargli di matrimonio e ho saltato tutta la parte della dichiarazione in ginocchio, fiori ecc).

Per me, un divano simboleggiava meglio l’impegno che come coppia volevamo prenderci.

Il divano è innanzitutto accogliente per più di una persona. Mentre della bellezza dell’anello di fidanzamento avrei goduto principalmente io, il divano è minimo per due persone. O tre, o quattro… Il divano guarda avanti e intorno a noi. Accoglie chi c’è ora e accoglierà chi verrà dopo.

Stare seduti sul divano non è di per sè un gran che come attività, ma stando seduti sul divano si possono fare comodamente tante cose: guardare un film, leggere un libro, riposare, telefonare, giocare i videogames, lavorare col laptop sulle ginocchia (tipo me adesso!)… Il divano è un facilitatore. La nostra visione di coppia non è legata al fare tutto insieme, ma a far sì che ognuno trovi il suo spazio per fare ciò che lo/la appassiona, avere momenti di condivisione e momenti di solitudine, nonchè momenti di solitudine condivisa. Nessuno dei due si è mai sentito a disagio nello stare insieme, ad esempio seduti sul divano!, e fare cose diverse: uno che controlla le email e l’altra che guarda un film, uno che ascolta la musica e l’altra che legge… non perchè non ci piace condividere esperienze, ma perchè ognuno riconosce l’importanza di dar spazio alle individualità che non dipendono l’uno dall’altra ma scelgono di sostenersi e camminare insieme.

Infine il divano, rispetto a un anello d’oro, è un bene meno durevole, che va rinnovato, sistemato, a volte sostituito. Già nel suo primo decennio di vita il nostro divano è stato ricoperto, trasformato nei colori, e probabilmente in futuro – mio malgrado – andrà sostituito. Questa caratteristica del divano non simboleggia il fatto checredo che la vita della nostra coppia sarà breve, ma significa che noi come coppia non possiamo – e non dobbiamo credere di – essere sempre gli stessi. Perchè dal primo momento in cui abbiamo iniziato la nostra vita insieme ci siamo conosciuti, adattati, accolti, arrabbiati, risentiti, perdonati. Con l’arrivo dei figli poi abbiamo dovuto necessariamente rivedere i nostri spazi, allargare i nostri spazi, braccia e cuori.

Quando sento dire “lui/lei non è più quello di una volta”, io mi dico: meno male!

Siamo andati avanti, su un percorso nostro, non sempre lineare, un po’ tortuoso a volte, ma ne è valsa la pena. Sempre.

E così un ultimo sguardo al divano, disordinato, vissuto, “comodoso” (come dice mio figlio) e poi fuori, ad affrontare la cosiddetta “nuova normalità”, sicura che al mio ritorno lui sarà lì ad aspettarmi.

Scommetto su di te

Dare fiducia e ispirare fiducia… due facce della stessa moneta, per rimanere nella metafora della scommessa. Che cos’è la fiducia?

La fiducia è l’aspettativa di un comportamento positivo che noi riponiamo, in condizioni di incertezza, in un altro. Dato che nelle relazioni umane non c’è mai una certezza in merito al comportamento dell’altro – che può sempre operare una scelta diversa – la fiducia diventa l’unica base su cui costruire.

Il detto che dice “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio” parte invece dal presupposto che ciò che è al di fuori di noi è ostile, o per lo meno ha delle minacce potenziali, dalle quali noi dobbiamo sempre difenderci: quindi erigiamo barriere emotive, cerchiamo di non svelare tutto ciò che siamo o sappiamo e anche se a parole ci diciamo aperti e disponibili verso l’altro, il nostro radar interiore è sempre alla ricerca del possibile inganno o doppio fine (la famosa “hidden agenda”). Il risultato? Sicuramente ci sentiamo più sicuri, chiusi nella nostra fortezza, ma dimentichiamo una cosa: smettiamo di ispirare fiducia. Per fidarci degli altri abbiamo bisogno di tre elementi:

  • autenticità
  • empatia
  • competenza

Se io cerco di nascondere chi sono veramente (per paura del giudizio, ad esempio), la mia autenticità ne risente e compiere passi falsi – dire una cosa e farne un’altra – è pressoché inevitabile. Come inevitabile sarà la caduta di immagine agli occhi di chi dovrebbe avere fiducia in me.

Ma se anche fossi autentico e non sapessi includere l’altro come un pari nella relazione, quest’ultimo potrebbe sentirsi subordinato, controllato, manipolato… che ovviamente non piace a nessuno. Per questo la mancanza di empatia non aiuta ad alzare il punteggio della fiducia.

Terzo: la competenza. Questo forse è l’aspetto che viene in mente prima degli altri due quando si pensa alla fiducia: come posso fidarmi di te se non riconosco che tu sai fare o ti impegni a fare qualcosa che è l’oggetto della nostra relazione? Però se io parto dal “fidarmi è bene, non fidarmi è meglio” per quale assurdo motivo dovrei metterti a parte della mia competenza? Come potrei condividere con te le mie conoscenze? Logico. Ma come potrei sperare che l’altro faccia lo stesso, se il principio ispiratore del suo agire è lo stesso?

Si giungerà così al paradosso in cui l’assioma della razionalità della teoria dei giochi fallisce: la soluzione razionalmente più sicura non è la migliore.

Vi ricordate il dilemma del prigioniero, no? Due ladri vengono catturati e tenuti in celle separate senza possibilità di comunicare; a ciascuno viene offerto un accordo:

  1. se solo uno dei due collabora accusando l’altro, chi ha collaborato evita la pena; l’altro viene però condannato a 7 anni di carcere.
  2. se tutti e due collaborano e accusano l’altro, vengono entrambi condannati a 6 anni.
  3. se nessuno dei due collabora, entrambi vengono condannati a 1 anno, perché comunque già colpevoli di porto abusivo di armi.

Ciò che la teoria ci insegna è che la scelta in cui si rischia meno è la seconda, perché negli altri due casi il rischio è che l’altro collabori con la polizia, vista l’opportunità di sfuggire completamente al carcere. Ciò implica che entrambi i prigionieri per stare più sicuri si accontenteranno di uno sconto di un anno della pena.

Se entrambi si fidassero dell’altro e non confessassero, però, lo sconto della pena sarebbe 6 volte tanto!

Considerato che la maggior parte di voi lettori in questo momento non sta rischiando il carcere (suppongo!) vi suggerisco di rischiare e puntare sulla fiducia, quando si tratta delle relazioni umane. I vantaggi sono molteplici: pensate ora, in questa famigerata “FASE 2”, quanto diventa importante potersi fidare che gli altri rispettino le norme igieniche e di distanziamento per poter tornare al ristorante, al mare, anche solo a fare una passeggiata in centro. Ovvio che ci si può accontentare di stare al sicuro in casa, ma ci basta?

E pensiamo sul lavoro: in un clima di fiducia verso il proprio capo, il management dell’azienda, nonostante l’incertezza che domina questo periodo e le difficoltà, potremo continuare ad andare avanti e a costruire un domani nuovo… altrimenti, se la fiducia manca, in che modo potremo dar loro credito nell’esplorazione di strade non ancora battute? Verso dove e come ci muoveremmo?

Anche se la fiducia è binaria (ti dò fiducia/non ti dò fiducia), il consolidamento della stessa è un processo che evolve col tempo.

Il primo stadio è la fiducia basata sul calcolo costi/benefici. Pensate se, prima di salire su un aereo, dovessimo controllare lo stato di servizio, la salute, le competenze del pilota. In questa come in altre situazioni la fiducia è basata sul fatto che mi costa meno fidarmi che cercare di capire se posso fidarmi.

Il secondo stadio è la fiducia basata sul rispetto. La reputazione, la competenza, l’autorevolezza di certe persone ci fanno propendere a fidarci di più o di meno di loro. Pensiamo alla politica: spesso quando ci troviamo a votare i nostri rappresentanti, diamo un voto alle loro idee, proposte, a quanto pensiamo che possa fare per noi, per il nostro comune, regione o Paese. Non è che abbiamo la fortuna di conoscerli tutti approfonditamente e di persona, quindi diamo loro un credito (il voto) sulla base del rispetto che nutriamo verso ciò che dicono e hanno dimostrato nel tempo… (anche se numerosi studi su questo tema hanno evidenziato che la maggior parte dei voti sono dati di “pancia”, sulla base dell’onda emotiva. Ma cerchiamo di far finta che invece ci documentiamo e facciamo scelte ponderate).

Terzo e ultimo stadio: la fiducia piena, quella che mi fa dire: va tu al mio posto, so che porterai i risultati che porterei io (o anche migliori); quella che contestualizza l’errore e non lo considera tale da mandare all’aria la relazione – seppure con dei limiti; quella che genera innovazione e creatività, perché non mi aspetto che l’altro segua le mie orme ma faccia un percorso che comunque non lo porterà mai a farmi del male.

Per concludere con le parole di Ernest Hemingway:

“Il modo migliore per scoprire se ci si può fidare di qualcuno è dargli fiducia” 

La penuria di lievito, una riflessione sul Talento

Nelle situazioni straordinarie come quella che stiamo vivendo, ogni società si “attacca” a qualcosa di diverso. C’è chi ha dato l’assalto alle armerie. Supermercati in cui è sparita in pochi giorni la carta igienica. In Italia, è esaurito il lievito.

Ma la mia riflessione non sta tanto sui novelli pizzaioli o i riscoperti panificatori italiani, sta nel fatto che – dopo un primo momento di sgomento – hanno iniziato a fioccare ovunque (social, chat di gruppo ecc) ricette per fare il pane e i dolci senza lievito o come anche utilizzare agenti lievitanti alternativi.

Questo mi ha fatto riflettere e spinto a scrivere questo post.

Il lievito mancante è la nostra famosa “area di miglioramento”, per essere politically correct, o la nostra “debolezza” per dirla alla vecchia.

Quante volte sul lavoro, ma anche in contesti diversi, ci è stata fatta notare? E ci è stato chiesto di migliorarla? “Sei poco empatico! Devi essere più empatico!” “Perchè sei così poco proattivo? Non dici mai niente alle riunioni! Di cosa hai paura?” e così via. E quante altre volte, nonostante i nostri sforzi, il miglioramento atteso è stato sotto le aspettative?

Il punto è che esistono agenti lievitanti alternativi. Sì, non è la stessa cosa, sì sono pù complicati, ma esistono.

Questo vale anche per noi, nella gestione dei nostri Talenti.

Da quando mi sono avvicinata alla metodologia “CliftonStrengths”, che prende il nome dallo psicologo Don Clifton, ho avuto una rivelazione su un altro modo in cui lo sviluppo personale può prendere forma. Ovvero, lavorare sui punti di forza, sui Talenti, invece che concentrarsi sui punti di debolezza.

Cosa cambia? TUTTO.

Prima scoperta: investire sui propri punti di forza aiuta a focalizzarci sul positivo, su ciò che già possediamo come Talento individuale, e questo è davvero un propulsore della motivazione. Quante volte abbiamo associato al “piano di sviluppo” un senso di frustrazione? Della serie: se ho bisogno di un piano di sviluppo vuol dire che c’è qualcosa che non va. Proviamo invece a pensare al piano di sviluppo come alla ristrutturazione e all’ampliamento di una casa: le fondamenta, i muri portanti, il tetto già ci sono, è solo questione di esaltarne la bellezza, di sostituire qualche parte rovinata, di ampliare qualche locale che è diventato troppo stretto.

Il piano di sviluppo quindi diventa: dato che ho già dei Talenti, proviamo a svilupparli ancora in modo che mi aiutino ad essere sempre più efficace nelle situazioni quotidiane (nelle relazioni, nelle decisioni, nel perseguire in generale degli obiettivi).

A questo punto la domanda – come direbbe qualcuno – sorge spontanea: e quello che manca? Se io devo prendere una decisione ma non sono abbastanza analitico?

Seconda scoperta: non c’è un solo modo di fare le cose. Ognuno di noi è diverso e ha le capacità per ottenere dei risultati. C’è chi ha le capacità per seguire la “strada maestra”, ovvero la via più consolidata, più conosciuta per fare le cose – se devo fare la pizza in casa, compro il lievito di birra fresco – e chi invece deve seguire vie secondarie, o addirittura tracciarne una nuova – vedi l’uso dei lievitanti alternativi.

Quindi se devo prendere una decisione ma non sono una persona analitica, cosa posso fare? Magari ho un talento per proiettarmi in avanti e immaginare come vorrei che fosse il futuro dopo la mia scelta; oppure sono una persona che apprende attraverso gli altri e chiedendo a persone di cui mi fido posso chiarirmi meglio le idee; magari ancora sono una persona che fatica a vedere la decisione nel dettaglio se non inserita in un quadro più ampio, che dà una prospettiva e una importanza diversa alla scelta stessa.

Lavorare sulle strade alternative è più faticoso, perchè spesso non c’è un esempio da imitare e ancor più spesso le persone intorno tenderanno a darti un feedback rispetto sempre alla soluzione consolidata: eppure, imparando ad allenare i propri talenti, ogni persona potrà trovare una modalità efficace e propria per dare un contributo alle situazioni che sarà – come ogni individuo – unico.

Cogliamo l’opportunità delle mancanze – che sia del lievito o dell’estroversione, l’analiticità, l’empatia – per trovare modi nuovi ma non meno efficaci per affrontare le situazioni.

Continuerò nei prossimi post a parlare di Talento, continua a seguirmi!

L’isolamento e la connessione (anche quando cade la Rete)

In questo periodo, così incredibile e inaspettato, sui vari Social impazzano immagini divertenti che tirano fuori il lato ironico della situazione. Una di quelle che mi piace di più è l’immagine di Igor (tratto da “Frankenstein Junior” – un impareggiabile Marty Feldman) che dice: “Potrebbe andare peggio. Potrebbe non funzionare Internet”.

Quale disgrazia! Internet è diventato prezioso come l’aria: non potremmo più fare smart working, gli houseparty con gli amici, le videochiamate con la nonna, guardare i film e le serie tv in streaming, stalkerare le persone sui Social, ordinare cibo pronto o (ma non funziona comunque) fare la spesa online, aggiornarci sul COVID19 tramite le notifiche push delle app delle testate giornalistiche… Ma se davvero dovesse succedere?

Quando si condivide un appartamento con altre 3 persone, di cui 2 di età inferiore ai 10 anni, la cosa che più manca è il silenzio. Ma di notte, quando tutti dormono, eccolo. E allora la mia mente e il mio cervello trovano spazio per rilassarsi e riflettere, lasciar fluire le emozioni e – come dice la mia app di Yoga preferita – ammorbidire il cuore.

E nell’isolamento e nella solitudine silenziosa ho riscoperto il significato che ha per me la parola “connessione”. Per me, che ho secondo il test di personalità “CliftonStrengths” proprio Connessione come primo e predominante Talento, la domanda che è sorta dopo la prima settimana di reclusione in casa è stata: ma come faccio a connettermi con gli altri se non posso nemmeno stare con loro?

Può l’isolamento essere un ostacolo alla connessione?

No.

Ho capito che l’isolamento che stiamo vivendo tutti – e dico tutti, ormai a livello mondiale – è come il crogiolo per il metallo, che ne esalta la purezza eliminando le scorie. Mi sono resa conto di quanto confondessi la connessione con gli altri con lo stare in mezzo agli altri. Lavoro con te, parlo con lei, esco con loro. Ma siamo davvero connessi?

Creare connessione vuol dire essere in grado di rispondere a un bisogno profondo dell’altra persona in modo tale che nè il tempo nè lo spazio possano in qualche modo intaccarla.

Come fare a capire quale sia questo bisogno? L’isolamento ci viene in aiuto. Nel silenzio, nella solitudine, nella noia, quali domande sorgono in noi? Quali dubbi? Paure? In quei momenti di vulnerabilità capiamo che l’autosufficienza è un mito. Che il “posso fare tutto da solo” è una bufala, che la felicità non è un cammino solitario.

Se lo fosse, saremmo tutti al massimo in questo momento, super performanti e felici.

Magari a volte è così, ma non tutti i giorni e tutto il giorno. Lo vediamo dalle persone che si mettono in coda volontariamente  alle poste pur di parlare con qualcuno (cosa che probabilmente prima odiavano fare), dalle telefonate ad amici che non sentivamo da tanto solo per un saluto e per sapere se “lì da loro” va tutto bene, fino ai flash mob e ad altri momenti comunitari a cui ci aggreghiamo perchè il nostro senso di appartenenza ha fame di connessione.

Io personalmente sto cogliendo questa faticosa opportunità per mettermi in ascolto della mia ed altrui vulnerabilità. In casa, coi bambini super agitati e urlanti, mi chiedo: come stanno vivendo la lontananza forzata dagli amici, dalle loro abitudini, lo sport, le uscite? Come posso accogliere e aiutarli a gestire le loro emozioni? Cosa posso imparare da loro? Cosa posso fare per supportare mio marito, che continua a lavorare nell’incertezza? E quando a sera mi sento esaurita e stanca, posso esprimere la mia stanchezza senza sensi di colpa accettando un aiuto o semplicemente la mia imperfezione.

Vivendo io per prima in questo modo, senza aspettarmi nulla dagli altri, si è innescato un circolo virtuoso, che io chiamo reciprocità. C’era anche prima, ed è ancora più forte oggi.

Di Goethe, quarantena e limiti

Josef Stieler – Johann Wolfgang von Goethe

Sono passati un po’ di giorni dall’ultimo post e me ne scuso. So che un vero blogger scrive quotidianamente, ma questi ultimi giorni sono stati di forte cambiamento dei normali ritmi casalinghi… e non solo perchè ci troviamo a dividere in 4 la nostra casa 24/7, ognuno con esigenze diverse, ma soprattutto perchè in questi giorni sono diventata ancora più centrale per il mantenimento degli equilibri familiari.

Da una parte, la mia preoccupazione di continuare a lavorare – e come altre persone con P.Iva sto risentendo dello stop nazionale – e dall’altra la gestione di chi guarda a me come un punto di riferimento. I miei figli in primis, per l’aiuto nella didattica a distanza, nella costruzione di attività che li portino un po’ distante dagli schermi, i familiari soli o lontani, mio marito che comunque lavora per le faccende domestiche, la cucina… Ad un certo punto mi sono sentita sopraffare.

E qui mi è venuto in aiuto il vecchio amico Goethe:

Uno non ha che dichiararsi libero, ed ecco che in quello stesso istante si sente limitato. Abbia solo il coraggio di dichiarasi limitato, ed eccolo libero.

Questa direi che è la lezione più importante della mia quarantena: riconoscere e accettare i miei limiti. Accoglierli come parte di me. Accogliere il fatto che non posso essere sempre al 100% delle energie, che certe volte vorrei smettere di cercare materiali di riciclo per i lavoretti di mia figlia e ordinare un prodotto già fatto su Amazon, che non sopporto i capricci di mio figlio ogni santo giorno quando dobbiamo iniziare a fare i compiti, che la cesta con i panni da stirare può aspettarmi piena un giorno ancora… E accettare il fatto che chiedere aiuto non è segno né di debolezza né un modo per scaricare sugli altri le mie responsabilità.

Tante volte mi capita, dato che il mio lavoro è cercare di supportare gli altri nella crescita personale, di pensare di non poter gravare sugli altri anche con le mie esigenze, portandomi – come diceva Goethe – a sentirmi limitata. Limitata nell’espressione della mia stanchezza, della mia voglia di fare qualcosa per me stessa, nelle emozioni.

Riconoscere che anche io “posso” concedermi di non rispondere alle aspettative di tutti in qualsiasi momento mi dà due grandi libertà: la prima è quella di poter lavorare sui miei limiti invece che nasconderli sotto il famigerato tappeto; la seconda è quella di riconoscere lo spazio di “avanzata” delle persone che sono intorno a me: aiutare gli altri significa anche aiutarli ad aiutare a loro volta, trovando modalità di incontro in cui ciascuna delle parti è chiamato a fare un passo nella direzione dell’altro.

In questo momento di limitazione, sia fisica che relazionale, in cui impera il “non poter fare”, la mia libertà è nel saperla accogliere ed accettare per il mio attuale e futuro “poter essere”.

Mascherina sì, mascherina no…

Come l’Euristica della disponibilità e l’Effetto Dunning-Kruger ci stanno influenzando… molto più del Coronavirus.

L’evolversi rapido della diffusione dei contagi di COVID19 nel nostro Paese, oltre che nel resto del mondo, ha fatto sì che le precauzioni sanitarie diventassero prescrizioni.

In poche parole: sabato eravamo in allegria a festeggiare il Carnevale a Venezia, domenica saccheggiavamo le farmacie in cerca di gel disinfettanti e mascherine, lunedì (oggi) tutti tappati in casa.

Cosa ha portato una buona parte della Nazione (principalmente il Nord, visto da dove è partito il contagio) a questo repentino cambio di atteggiamento?

Da un lato i giornalisti, che oramai vivono solo di questa notizia (con buona pace degli incendi in Australia, di Trump e della crisi in Libia) e che fa da volano alle notizie politiche; dall’altro il passaparola, le chat intasatissime, i social.

Questo bombardamento di informazioni al nostro cervello fa scattare quella che i due psicologi Amos Tversky e Daniel Kahneman hanno chiamato nel 1973 “euristica della disponibilità”.

Questa euristica è una scorciatoia mentale che fa sì che le persone siano più portate a dar credito alle informazioni che si richiamano più facilmente alla memoria di altre, considerate quindi meno rilevanti.

Nelle prime indagini di Euristica della disponibilità di Tversky & Kahneman fu chiesto a dei soggetti: “Se una parola casuale è tratta da un testo inglese, è più probabile che la parola inizi con una K, o che K sia la terza lettera?” Il presupposto era che alle persone di lingua inglese sarebbero facilmente venute a mente immediatamente molte parole che iniziano con la lettera “K” (kangaroo, kitchen, kale), mentre ci sarebbe voluto uno sforzo più concentrato per pensare a qualsiasi parola in cui “K” è il terza lettera (acknowledge, ask). I risultati hanno indicato che i partecipanti hanno sovrastimato il numero di parole inizianti con la lettera “K” ed hanno sottovalutato il numero di parole che avevano “K” come terza lettera. Tversky e Kahneman hanno concluso che le persone rispondono a domande come queste confrontando la disponibilità delle due categorie e valutando la facilità con cui possono richiamare queste istanze. In altre parole, è più facile pensare alle parole che iniziano con “K”, più che a parole con “K” come terza lettera. Pertanto, le persone giudicano le parole che iniziano con una “K” come un evento più ricorrente. In realtà, un testo standard inglese contiene il doppio delle parole che hanno “K” come terza lettera rispetto a “K” come prima lettera. Ci sono tre volte più parole con “K” nella terza posizione rispetto alle parole che iniziano con “K”.[i]

Questo a quanto pare vale anche con le immagini, visto che la razzia di mascherine di carta, peraltro più volte indicate come inutili nella difesa contro il virus in oggetto, potrebbe essere stata causata dalle molteplici immagini di persone che le indossavano associate ad articoli o a servizi giornalistici.

Ma non fermiamoci qui: proviamo ad aggiungere all’euristica quello che dal 1999 è noto come “effetto Dunning-Kruger”[ii]. I due psicologi, da cui il nome dell’effetto, hanno condotto una serie di studi sulla capacità di autovalutazione delle persone in merito a determinate conoscenze. Sintetizzando i risultati, le evidenze ci richiamano le parole di Socrate “So di non sapere”: maggiore è la competenza di una persona in un determinato ambito di conoscenza, maggiore è la consapevolezza di quanto ancora ci sia da studiare e approfondire e quindi la sua autovalutazione tenderà a sottostimare l’effettiva competenza. Al contrario, chi meno è esperto del medesimo ambito, tenderà a sovrastimare la sua competenza in quanto all’oscuro di tutte le possibili informazioni aggiuntive.

Quanto ognuno di noi può dirsi virologo/Medico/Epidemiologo? Eppure ciascuno in questi giorni si sarà fatto un’idea e avrà commentato statistiche sulla mortalità del virus, la sua contagiosità, le sue origini; e più ci sentiamo padroni della materia più le informazioni che ci arrivano andranno a confermare (confirmation bias, altro trucchetto del nostro cervello che seleziona le informazioni che vanno a confermare un’idea che reputiamo più vera) ciò che crediamo.

Quindi, cosa fare?

I consigli sono semplici:

  1. Dato che non possiamo essere esperti di tutto, dobbiamo fidarci di persone competenti (medici, virologi) senza supporre che ci stiano per forza nascondendo qualcosa;
  2. Seguire le indicazioni sanitarie di base senza cadere nell’estremismo (come ad esempio ordinare una tuta anti bio-hazard su Internet per andare a lavorare);
  3. Ricordarci che il nostro cervello è efficiente, e vuole fare il minimo sforzo: quindi invece che lasciarlo guidare sulle scorciatoie della mente, fermarsi un attimo e usare la nostra capacità analitica per riportarlo sulla strada – meno economica – della razionalità.

[i]Da WIKIPEDIA: Amos Tversky e Daniel Kahneman, Availability: A heuristic for judging frequency and probability, in Cognitive Psychology, vol. 5, nº 2, 1973, pp. 207–232, DOI:10.1016/0010-0285(73)90033-9ISSN 0010-0285 (WC · ACNP).

[ii] “Unskilled and unaware of it: how difficulties in recognizing one’s own incompetence lead to inflated self-assessments.”J Kruger, D Dunning – Journal of personality and social psychology, 1999