
Dare fiducia e ispirare fiducia… due facce della stessa moneta, per rimanere nella metafora della scommessa. Che cos’è la fiducia?
La fiducia è l’aspettativa di un comportamento positivo che noi riponiamo, in condizioni di incertezza, in un altro. Dato che nelle relazioni umane non c’è mai una certezza in merito al comportamento dell’altro – che può sempre operare una scelta diversa – la fiducia diventa l’unica base su cui costruire.
Il detto che dice “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio” parte invece dal presupposto che ciò che è al di fuori di noi è ostile, o per lo meno ha delle minacce potenziali, dalle quali noi dobbiamo sempre difenderci: quindi erigiamo barriere emotive, cerchiamo di non svelare tutto ciò che siamo o sappiamo e anche se a parole ci diciamo aperti e disponibili verso l’altro, il nostro radar interiore è sempre alla ricerca del possibile inganno o doppio fine (la famosa “hidden agenda”). Il risultato? Sicuramente ci sentiamo più sicuri, chiusi nella nostra fortezza, ma dimentichiamo una cosa: smettiamo di ispirare fiducia. Per fidarci degli altri abbiamo bisogno di tre elementi:
- autenticità
- empatia
- competenza
Se io cerco di nascondere chi sono veramente (per paura del giudizio, ad esempio), la mia autenticità ne risente e compiere passi falsi – dire una cosa e farne un’altra – è pressoché inevitabile. Come inevitabile sarà la caduta di immagine agli occhi di chi dovrebbe avere fiducia in me.
Ma se anche fossi autentico e non sapessi includere l’altro come un pari nella relazione, quest’ultimo potrebbe sentirsi subordinato, controllato, manipolato… che ovviamente non piace a nessuno. Per questo la mancanza di empatia non aiuta ad alzare il punteggio della fiducia.
Terzo: la competenza. Questo forse è l’aspetto che viene in mente prima degli altri due quando si pensa alla fiducia: come posso fidarmi di te se non riconosco che tu sai fare o ti impegni a fare qualcosa che è l’oggetto della nostra relazione? Però se io parto dal “fidarmi è bene, non fidarmi è meglio” per quale assurdo motivo dovrei metterti a parte della mia competenza? Come potrei condividere con te le mie conoscenze? Logico. Ma come potrei sperare che l’altro faccia lo stesso, se il principio ispiratore del suo agire è lo stesso?
Si giungerà così al paradosso in cui l’assioma della razionalità della teoria dei giochi fallisce: la soluzione razionalmente più sicura non è la migliore.
Vi ricordate il dilemma del prigioniero, no? Due ladri vengono catturati e tenuti in celle separate senza possibilità di comunicare; a ciascuno viene offerto un accordo:
- se solo uno dei due collabora accusando l’altro, chi ha collaborato evita la pena; l’altro viene però condannato a 7 anni di carcere.
- se tutti e due collaborano e accusano l’altro, vengono entrambi condannati a 6 anni.
- se nessuno dei due collabora, entrambi vengono condannati a 1 anno, perché comunque già colpevoli di porto abusivo di armi.
Ciò che la teoria ci insegna è che la scelta in cui si rischia meno è la seconda, perché negli altri due casi il rischio è che l’altro collabori con la polizia, vista l’opportunità di sfuggire completamente al carcere. Ciò implica che entrambi i prigionieri per stare più sicuri si accontenteranno di uno sconto di un anno della pena.
Se entrambi si fidassero dell’altro e non confessassero, però, lo sconto della pena sarebbe 6 volte tanto!
Considerato che la maggior parte di voi lettori in questo momento non sta rischiando il carcere (suppongo!) vi suggerisco di rischiare e puntare sulla fiducia, quando si tratta delle relazioni umane. I vantaggi sono molteplici: pensate ora, in questa famigerata “FASE 2”, quanto diventa importante potersi fidare che gli altri rispettino le norme igieniche e di distanziamento per poter tornare al ristorante, al mare, anche solo a fare una passeggiata in centro. Ovvio che ci si può accontentare di stare al sicuro in casa, ma ci basta?
E pensiamo sul lavoro: in un clima di fiducia verso il proprio capo, il management dell’azienda, nonostante l’incertezza che domina questo periodo e le difficoltà, potremo continuare ad andare avanti e a costruire un domani nuovo… altrimenti, se la fiducia manca, in che modo potremo dar loro credito nell’esplorazione di strade non ancora battute? Verso dove e come ci muoveremmo?
Anche se la fiducia è binaria (ti dò fiducia/non ti dò fiducia), il consolidamento della stessa è un processo che evolve col tempo.
Il primo stadio è la fiducia basata sul calcolo costi/benefici. Pensate se, prima di salire su un aereo, dovessimo controllare lo stato di servizio, la salute, le competenze del pilota. In questa come in altre situazioni la fiducia è basata sul fatto che mi costa meno fidarmi che cercare di capire se posso fidarmi.
Il secondo stadio è la fiducia basata sul rispetto. La reputazione, la competenza, l’autorevolezza di certe persone ci fanno propendere a fidarci di più o di meno di loro. Pensiamo alla politica: spesso quando ci troviamo a votare i nostri rappresentanti, diamo un voto alle loro idee, proposte, a quanto pensiamo che possa fare per noi, per il nostro comune, regione o Paese. Non è che abbiamo la fortuna di conoscerli tutti approfonditamente e di persona, quindi diamo loro un credito (il voto) sulla base del rispetto che nutriamo verso ciò che dicono e hanno dimostrato nel tempo… (anche se numerosi studi su questo tema hanno evidenziato che la maggior parte dei voti sono dati di “pancia”, sulla base dell’onda emotiva. Ma cerchiamo di far finta che invece ci documentiamo e facciamo scelte ponderate).
Terzo e ultimo stadio: la fiducia piena, quella che mi fa dire: va tu al mio posto, so che porterai i risultati che porterei io (o anche migliori); quella che contestualizza l’errore e non lo considera tale da mandare all’aria la relazione – seppure con dei limiti; quella che genera innovazione e creatività, perché non mi aspetto che l’altro segua le mie orme ma faccia un percorso che comunque non lo porterà mai a farmi del male.
Per concludere con le parole di Ernest Hemingway:
“Il modo migliore per scoprire se ci si può fidare di qualcuno è dargli fiducia”