Dell’empatia

Ho ascoltato almeno 3 volte il discorso che Michelle Obama ha fatto durante la convention democratica americana. Mi ha profondamente colpito che le parole riportate e sottolineate dalla stampa fossero quelle riguardanti l’inadeguatezza dell’attuale presidente, che in 18 minuti occupano sì e no 2 minuti. Il suo discorso è centrato in gran parte sulle doti che lei vede essere le migliori per un leader: non la forza, non la capacità di vincere, non l’abilità di destreggiarsi di fronte a un grande pubblico con discorsi trascinanti.

No, le parole che ha usato sono cortesia e decoro morale (decency), onore (honor), empatia (empathy).

Su quest’ultima in particolare ha dedicato un lungo passaggio, in quanto l’empatia non è una capacità individuale ma viene presentata come un valore per la società. L’empatia non è qualcosa con cui semplicemente si nasce, ma può essere instillata dalla cultura e quindi insegnata.

Per me è stato così.

“Empathy”, secondo il CliftonStrengths Assessment di Gallup, è il secondo Talento che ho più sviluppato, e di questo devo ringraziare mia madre.

Uno dei primi ricordi che ho in merito risalgono a quando avevo più o meno dieci anni. Erano i primi anni ’90, c’erano le “Pubblicità Progresso” che iniziavano a parlare di una malattia, l’AIDS, che sembrava diffondersi dappertutto. Usciva al cinema Philadelphia, film capolavoro con un fantastico Tom Hanks, e a noi bambini gli adulti raccomandavano sempre di fare attenzione alle siringhe nel parco. Drogati e malati di HIV facevano paura. Eppure, in quel periodo – non ricordo neanche bene in che modo – mia madre decise di fare un passo verso quelle persone. Conobbe così due famiglie con bambini che stavano facendo un percorso di riabilitazione in una comunità per ex-tossicodipendenti. In una delle due famiglie, non solo i genitori erano sieropositivi ma anche uno dei bambini, che non si era negativizzato alla nascita come gli altri. Avevano un passato difficile, e anche un presente complicato, fatto di violenze, degrado, ma soprattutto solitudine. A casa nostra si sentivano semplicemente “persone”. Io giocavo con i bambini, un po’ più piccoli di me, con semplicità, si festeggiavano i compleanni, si rideva e si piangeva. A 11 anni ricordo che coinvolsi due mie compagne di scuola di prima media in una piccola raccolta fondi (risparmiammo per mesi sulle nostre paghette) per comprare dei giocattoli da regalare a Natale ai bambini. Fu una festa bellissima.

Poi ci fu la volta in cui conoscemmo Aldo (nome di fantasia), un ragazzo omosessuale. Dovete sapere che quando mia madre studiò medicina, l’omosessualità era ancora considerata una patologia, attestata dalla stessa OMS. Conoscere Aldo le fece capire – più a lei che a me, io non sapevo neanche perchè i gay fossero discriminati – che di nuovo, al di là di tutto, aveva a che fare con una persona. Aldo amava cantare, faceva parte di un coro, e abbiamo passato un sacco di pomeriggi con gli spartiti in mano a provare, sorridendo della nota incapacità di mia madre di prendere una nota esatta.

La nostra era la più piccola famiglia del mondo, formata da noi due, eppure diventava più grande mano a mano che si apriva al mondo. Tante persone che mia madre incontrava sul lavoro, in parrocchia, in giro, a un certo punto si sentivano attratte da questa mini famiglia e per un po’ vi entravano, così come poi semplicemente se ne allontanavano.

Uno dei momenti più complessi fu l’incontro con le donne che volevano abortire. Mia madre come medico aveva fatto obiezione di coscienza, perchè non voleva partecipare in alcun modo agli aborti. Poi però decise di fare le visite preoperatorie, non con l’intento di far cambiare idea alle donne, ma per ascoltare, per capire.

Fu così che Marta (altro nome di fantasia) entrò nella nostra orbita. Ragazza giovane, bella, innamorata di un uomo sposato che “stava per lasciare sua moglie da un momento all’altro”, ma che, come purtoppo accade, non lo fece mai, nemmeno dopo che lei ebbe abortito. Marta entrò in una grandissima depressione – patologica, intendo – e tentò persino il suicidio. Cercammo di starle vicino, mia madre la indirizzò da uno specialista, ci volle tempo, pazienza e fatica, ma poi ce la fece ad andare avanti.

Mia madre cerca sempre di guardare in faccia i suoi limiti, i suoi pregiudizi, e di andare oltre. Mi ripete fin da quando ero bambina: “Ogni persona merita di essere accolta, non perchè se lo è guadagnato, ma perchè è un fratello”.

Io nel frattempo crescevo, diventavo adolescente, e a mia volta iniziavo ad aprirmi agli altri, nella vicinanza alle amiche, nel mettermi a disposizione di compagni di scuola che avevano bisogno per lo studio, facendo volontariato, semplicemente fermandomi a chiacchierare per conoscere le persone che chiedevano le elemosina per strada.

Poi, senza nemmeno che me ne accorgessi, non ero più solo io a fare un passo verso gli altri, ma mi capitava – e ancora oggi – che le persone volessero entrare in contatto con me. Volessero parlarmi. Vedessero in me qualcuno che li potesse semplicemente ascoltare. Così in fila alla cassa del supermercato, in autobus, in ascensore, ho ascoltato di problemi di salute, di preoccupazioni per il lavoro, di solitudine, di decisioni da prendere… e il mio contributo è stato solo un accogliente silenzio. Perchè mi sono resa conto che non posso aiutare tutti, ma sicuramente posso far sì che ogni persona si senta di valere la mia attenzione e il mio tempo, o almeno ci provo.

Ripercorrendo questa piccola storia personale mi rendo conto di come la Obama abbia ragione: l’empatia è un valore per tutta la società, perché ci rende capaci non di vedere le persone come “gli altri”, ma di farci noi stessi prossimi a loro.

Ma il blog è morto?

Sono passati quasi due mesi dall’ultimo post. Non ho scritto per due motivi: uno, mi sono goduta il tempo estivo con la mia famiglia; due, avevo bisogno di riordinare le idee su come e cosa scrivere nel mio blog.

Ho letto molto. Romanzi, per rilassarmi; da tempo non leggevo una media di due libri a settimana ed è stato bellissimo. Non riesco a smettere. Quello che mi affascina di più delle storie è poter interpretare un susseguirsi di eventi – non sempre legati fra loro – come un continuum, connettendo i punti fino a che non sento che in quella storia, in quel vissuto, ci sono dentro anche io.

Questo è quello che vorrei regalare anche a voi, lettori, attraverso il blog. Non solo una serie di contenuti magari interessanti, ma piccole storie con le quali portare voi nel mio mondo e darmi il permesso di entrare un po’ nel vostro.

A breve, quindi, sarò di nuovo qui, con la prima storia.

Il divano

Oggi è lunedì, e questo è il primo post del mese, un mese di riacquisto di vecchie libertà e di integrazione di nuove. La scuola è finita, iniziano gli esami. Qualcuno pianifica le vacanze, qualcuno spera di poter far accedere i propri figli ai pochi centri estivi che si sono riusciti ad adeguare alle nuove norme. Qualcuno le vacanze non le vuole fare, perchè deve recuperare i mesi di chiusura forzata della propria attività.

Qualunque sia l’estate che verrà, sicuramente lasceremo quel “posto fisso” che abbiamo occupato durante la quarantena: il divano. E guardandolo, mi è venuta voglia di scrivere questo post, un po’ personale, che ha per protagonista il mio divano.

Non è un divano grande, di quelli con la penisola o con il supporto per stendere le gambe, è un divano semplice e compatto, l’unico che poteva starci nel mio salotto. Eppure è speciale: è il mio divano di fidanzamento.

Faccio qui una breve premessa: questo, come dicevo, è un post personale, che non ha intenzione di scardinare o svalutare qualsiasi tradizione legata al fidanzamento: però è una piccola riflessione che parte dal divano di fidanzamento per arrivare alla vita di coppia.

Quando ormai dodici anni fa iniziammo a parlare di matrimonio, io dissi al mio non-ancora marito che non volevo nessun anello di fidanzamento. Lui mi guardò un po’ stupito e mi chiese: “ma non vuoi nessun regalo?”

Senza neanche pensarci gli risposi: “Se proprio vuoi farmi un regalo, regalami un divano”.

La sua perplessità si mescolò alla curiosità.

“L’anello di fidanzamento “ continuai “è impari: perchè l’uomo lo deve regalare alla donna e non è uno scambio di anelli? Oltretutto, una volta sposati, avremo le nostre fedi, quindi a cosa serve un altro anello?” (premetto che sono stata io la prima a parlargli di matrimonio e ho saltato tutta la parte della dichiarazione in ginocchio, fiori ecc).

Per me, un divano simboleggiava meglio l’impegno che come coppia volevamo prenderci.

Il divano è innanzitutto accogliente per più di una persona. Mentre della bellezza dell’anello di fidanzamento avrei goduto principalmente io, il divano è minimo per due persone. O tre, o quattro… Il divano guarda avanti e intorno a noi. Accoglie chi c’è ora e accoglierà chi verrà dopo.

Stare seduti sul divano non è di per sè un gran che come attività, ma stando seduti sul divano si possono fare comodamente tante cose: guardare un film, leggere un libro, riposare, telefonare, giocare i videogames, lavorare col laptop sulle ginocchia (tipo me adesso!)… Il divano è un facilitatore. La nostra visione di coppia non è legata al fare tutto insieme, ma a far sì che ognuno trovi il suo spazio per fare ciò che lo/la appassiona, avere momenti di condivisione e momenti di solitudine, nonchè momenti di solitudine condivisa. Nessuno dei due si è mai sentito a disagio nello stare insieme, ad esempio seduti sul divano!, e fare cose diverse: uno che controlla le email e l’altra che guarda un film, uno che ascolta la musica e l’altra che legge… non perchè non ci piace condividere esperienze, ma perchè ognuno riconosce l’importanza di dar spazio alle individualità che non dipendono l’uno dall’altra ma scelgono di sostenersi e camminare insieme.

Infine il divano, rispetto a un anello d’oro, è un bene meno durevole, che va rinnovato, sistemato, a volte sostituito. Già nel suo primo decennio di vita il nostro divano è stato ricoperto, trasformato nei colori, e probabilmente in futuro – mio malgrado – andrà sostituito. Questa caratteristica del divano non simboleggia il fatto checredo che la vita della nostra coppia sarà breve, ma significa che noi come coppia non possiamo – e non dobbiamo credere di – essere sempre gli stessi. Perchè dal primo momento in cui abbiamo iniziato la nostra vita insieme ci siamo conosciuti, adattati, accolti, arrabbiati, risentiti, perdonati. Con l’arrivo dei figli poi abbiamo dovuto necessariamente rivedere i nostri spazi, allargare i nostri spazi, braccia e cuori.

Quando sento dire “lui/lei non è più quello di una volta”, io mi dico: meno male!

Siamo andati avanti, su un percorso nostro, non sempre lineare, un po’ tortuoso a volte, ma ne è valsa la pena. Sempre.

E così un ultimo sguardo al divano, disordinato, vissuto, “comodoso” (come dice mio figlio) e poi fuori, ad affrontare la cosiddetta “nuova normalità”, sicura che al mio ritorno lui sarà lì ad aspettarmi.

Scommetto su di te

Dare fiducia e ispirare fiducia… due facce della stessa moneta, per rimanere nella metafora della scommessa. Che cos’è la fiducia?

La fiducia è l’aspettativa di un comportamento positivo che noi riponiamo, in condizioni di incertezza, in un altro. Dato che nelle relazioni umane non c’è mai una certezza in merito al comportamento dell’altro – che può sempre operare una scelta diversa – la fiducia diventa l’unica base su cui costruire.

Il detto che dice “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio” parte invece dal presupposto che ciò che è al di fuori di noi è ostile, o per lo meno ha delle minacce potenziali, dalle quali noi dobbiamo sempre difenderci: quindi erigiamo barriere emotive, cerchiamo di non svelare tutto ciò che siamo o sappiamo e anche se a parole ci diciamo aperti e disponibili verso l’altro, il nostro radar interiore è sempre alla ricerca del possibile inganno o doppio fine (la famosa “hidden agenda”). Il risultato? Sicuramente ci sentiamo più sicuri, chiusi nella nostra fortezza, ma dimentichiamo una cosa: smettiamo di ispirare fiducia. Per fidarci degli altri abbiamo bisogno di tre elementi:

  • autenticità
  • empatia
  • competenza

Se io cerco di nascondere chi sono veramente (per paura del giudizio, ad esempio), la mia autenticità ne risente e compiere passi falsi – dire una cosa e farne un’altra – è pressoché inevitabile. Come inevitabile sarà la caduta di immagine agli occhi di chi dovrebbe avere fiducia in me.

Ma se anche fossi autentico e non sapessi includere l’altro come un pari nella relazione, quest’ultimo potrebbe sentirsi subordinato, controllato, manipolato… che ovviamente non piace a nessuno. Per questo la mancanza di empatia non aiuta ad alzare il punteggio della fiducia.

Terzo: la competenza. Questo forse è l’aspetto che viene in mente prima degli altri due quando si pensa alla fiducia: come posso fidarmi di te se non riconosco che tu sai fare o ti impegni a fare qualcosa che è l’oggetto della nostra relazione? Però se io parto dal “fidarmi è bene, non fidarmi è meglio” per quale assurdo motivo dovrei metterti a parte della mia competenza? Come potrei condividere con te le mie conoscenze? Logico. Ma come potrei sperare che l’altro faccia lo stesso, se il principio ispiratore del suo agire è lo stesso?

Si giungerà così al paradosso in cui l’assioma della razionalità della teoria dei giochi fallisce: la soluzione razionalmente più sicura non è la migliore.

Vi ricordate il dilemma del prigioniero, no? Due ladri vengono catturati e tenuti in celle separate senza possibilità di comunicare; a ciascuno viene offerto un accordo:

  1. se solo uno dei due collabora accusando l’altro, chi ha collaborato evita la pena; l’altro viene però condannato a 7 anni di carcere.
  2. se tutti e due collaborano e accusano l’altro, vengono entrambi condannati a 6 anni.
  3. se nessuno dei due collabora, entrambi vengono condannati a 1 anno, perché comunque già colpevoli di porto abusivo di armi.

Ciò che la teoria ci insegna è che la scelta in cui si rischia meno è la seconda, perché negli altri due casi il rischio è che l’altro collabori con la polizia, vista l’opportunità di sfuggire completamente al carcere. Ciò implica che entrambi i prigionieri per stare più sicuri si accontenteranno di uno sconto di un anno della pena.

Se entrambi si fidassero dell’altro e non confessassero, però, lo sconto della pena sarebbe 6 volte tanto!

Considerato che la maggior parte di voi lettori in questo momento non sta rischiando il carcere (suppongo!) vi suggerisco di rischiare e puntare sulla fiducia, quando si tratta delle relazioni umane. I vantaggi sono molteplici: pensate ora, in questa famigerata “FASE 2”, quanto diventa importante potersi fidare che gli altri rispettino le norme igieniche e di distanziamento per poter tornare al ristorante, al mare, anche solo a fare una passeggiata in centro. Ovvio che ci si può accontentare di stare al sicuro in casa, ma ci basta?

E pensiamo sul lavoro: in un clima di fiducia verso il proprio capo, il management dell’azienda, nonostante l’incertezza che domina questo periodo e le difficoltà, potremo continuare ad andare avanti e a costruire un domani nuovo… altrimenti, se la fiducia manca, in che modo potremo dar loro credito nell’esplorazione di strade non ancora battute? Verso dove e come ci muoveremmo?

Anche se la fiducia è binaria (ti dò fiducia/non ti dò fiducia), il consolidamento della stessa è un processo che evolve col tempo.

Il primo stadio è la fiducia basata sul calcolo costi/benefici. Pensate se, prima di salire su un aereo, dovessimo controllare lo stato di servizio, la salute, le competenze del pilota. In questa come in altre situazioni la fiducia è basata sul fatto che mi costa meno fidarmi che cercare di capire se posso fidarmi.

Il secondo stadio è la fiducia basata sul rispetto. La reputazione, la competenza, l’autorevolezza di certe persone ci fanno propendere a fidarci di più o di meno di loro. Pensiamo alla politica: spesso quando ci troviamo a votare i nostri rappresentanti, diamo un voto alle loro idee, proposte, a quanto pensiamo che possa fare per noi, per il nostro comune, regione o Paese. Non è che abbiamo la fortuna di conoscerli tutti approfonditamente e di persona, quindi diamo loro un credito (il voto) sulla base del rispetto che nutriamo verso ciò che dicono e hanno dimostrato nel tempo… (anche se numerosi studi su questo tema hanno evidenziato che la maggior parte dei voti sono dati di “pancia”, sulla base dell’onda emotiva. Ma cerchiamo di far finta che invece ci documentiamo e facciamo scelte ponderate).

Terzo e ultimo stadio: la fiducia piena, quella che mi fa dire: va tu al mio posto, so che porterai i risultati che porterei io (o anche migliori); quella che contestualizza l’errore e non lo considera tale da mandare all’aria la relazione – seppure con dei limiti; quella che genera innovazione e creatività, perché non mi aspetto che l’altro segua le mie orme ma faccia un percorso che comunque non lo porterà mai a farmi del male.

Per concludere con le parole di Ernest Hemingway:

“Il modo migliore per scoprire se ci si può fidare di qualcuno è dargli fiducia” 

L’abit(udine) non fa il monaco

Dopo il post dell’altro giorno, in cui ho citato l’etimologia della parola “grazie”, mi sono incuriosita a proposito dell’origine di altre parole. E sono “inciampata” in questa: abitudine.

Secondo l’enciclopedia Treccani, il termine è dal latino habitudo (da habitus, “qualità, caratteristica, aspetto”, a sua volta derivato da habere, “avere, possedere”). Quindi la parola abitudine in italiano significa sia il possesso di una caratteristica stabile, di un’attitudine naturale o acquisita per qualcosa, sia la consuetudine a essere e agire in un certo modo. Nel parlare comune, tuttavia, questa parola viene più spesso impiegata in riferimento a un’azione o a una serie di azioni (ho l’abitudine del fumo, ho l’abitudine di andare a correre ogni mattina) piuttosto che a una caratteristica stabile (quante volte avete parlato con un’amica dell’abitudine del corpo per riferivi alla postura? Personalmente, mai!).

Le abitudini nascono dalla ripetizione di un comportamento, ripetizione che si attua a seguito di un incentivo, sia esso negativo o positivo. Chiaro esempio di questo è stata l’introduzione dell’obbligo della cintura di sicurezza in auto: se prima ogni volta dovevamo ricordarci di farlo, ci sembrava scomodo, avremmo preferito evitare, adesso se saliamo in macchina e non allacciamo la cintura sembra che ci manchi qualcosa e ci sentiamo quasi a disagio. Questa è un’abitudine che non nasce da una ricompensa (se non il pensiero, che sembra sempre lontano da noi, che in caso di incidente avremmo molte più probabilità di salvarci la vita) ma piuttosto da un incentivo negativo (la multa e la decurtazione dei punti dalla patente). Molte altre volte invece le abitudini nascono da incentivi positivi, ovvero dal senso di soddisfazione personale che traggo dall’azione (come la carica di energia e benessere che mi dà l’allenamento fisico quotidiano).

Ma perchè scrivere delle abitudini? Perchè le abitudini rafforzano i collegamenti neuronali legati all’azione stessa, permettendo di creare delle automazioni (non devo ogni volta pensare a come impugnare la matita per scrivere) e quindi di apprendere.

Questo è il punto: non demonizziamo per forza tutte le abitudini. Quante volte la parola “abitudinario” è pronunciata con un’accezione negativa? Abitudine è parlare e pensare in un’altra lingua come fosse quella madre, abitudine è correre 10 km ogni giorno senza farsi venire i crampi, abitudine è andare in bicletta senza perdere l’equilibrio mentre si presta attenzione al traffico.

Quand’è che allora le abitudini dventano “cattive”?

Quando gli automatismi del nostro cervello ci portano a compiere comportamenti inefficaci sul piano del compito o della relazione: potrebbe essere che al momento dell’apprendimento quell’azione fosse efficace rispetto al contesto e agli obiettivi, ma col mutare delle situazioni non lo sia più; potrebbe anche essere invece che l’azione appresa sia stata dettata dalla paura e che quindi l’abitudine abbia rafforzato un comportamento di difesa e diffidenza.

Faccio un esempio che mi riporta a quando lavoravo in azienda.

In un team entra una persona nuova, fresca fresca di laurea. Il suo manager, per aiutare il nuovo arrivato ad essere operativo, pianificherà molti incontri di allineamento sulle attività, in modo da capire come la persona stia andando e se abbia bisogno di un aiuto. Col tempo, però, il manager prende questa frequenza di incontri come una modalità operativa automatica, anche se oramai il suo collaboratore non è più “il nuovo arrivato” e inizia a sentirsi soffocato da questa prassi – che probabilmente interpreta come attività di controllo. Quindi inizierà a percepire (forse in maniera non del tutto conscia) il comportamento del suo manager come di uno che non si fida di lui e delle sue possibilità e inizierà a partecipare agli incontri one-to-one stando sempre sulla difensiva, in modo da “proteggersi le spalle”: attenersi a quanto richiesto, non uscire dal seminato.

Il risultato di queste abitudini? Relazione difficoltosa, conflitto, incapacità di condivisione di idee da parte del collaboratore e ulteriore stretta nel controllo da parte del manager, che vede quel membro del team come uno che “era partito bene, sembrava avesse del potenziale, ma guardalo adesso… fa sempre solo quello che gli dico, non si prende mai una responsabilità in più, non si butta in progetti nuovi… che peccato”.

Allora siamo condannati dalle nostre abitudini? Da un lato sono un segnale che abbiamo interiorizzato una competenza, dall’altro ci portano a degli automatismi che ci rendono poco efficaci… che fare?

E qui entra in gioco la consapevolezza. Come coach, mi accorgo spesso che tutti noi in maniera involontaria o volontaria (in quest’ultimo caso, perché ci siamo creati una comfort zone dalla quale non vogliamo uscire) abbassiamo il nostro livello di consapevolezza dato che questo ci fa rallentare. Ci rende meno efficienti. Prendere coscienza di ciò che stiamo facendo mentre lo stiamo facendo non è così banale come sembra, soprattutto se non ne vediamo immediatamente gli effetti negativi.

Eppure è lì la chiave: essere presenti a sé stessi e agli altri per poter agire quella libertà magnifica che abbiamo noi esseri umani – la libertà di scelta. Ecco che allora potremo interrompere l’automatismo, potremo provare strade nuove, potremo apprendere abitudini più efficaci (almeno fino al prossimo cambiamento).

L’abitudine ci guida, ma non ci definisce. Come l’abito per il famoso monaco.

Photo by Pixabay on Pexels.com

La cura del “Grazie”

Esattamente 5 anni fa, il 13 maggio 2015, Papa Francesco ha fatto un discorso di cui mi ha colpito questo passaggio: “Dobbiamo diventare intransigenti sull’educazione alla gratitudine, alla riconoscenza: la dignità della persona e la giustizia sociale passano entrambe di qui”.

Perché è così importante la gratitudine?

Photo by Panos Sakalakis on Pexels.com

Mi sono incuriosita e sono andata a vedere se ci sono delle ricerche in merito al potere della gratitudine. Innanzitutto, per capire meglio l’argomento, sono andata a vedere l’etimologia della parola “grazie” (come dico sempre a mio figlio, le parole sono più “pesanti” di quello che sembrano e non possiamo usarle con “leggerezza”…).

Grazie è il plurale latino di gratia, che secondo il dizionario Petrocchi significa “la maniera naturale che rende piacevoli gli atti, il parlare, le forme”. In altri dizionari si trovano definizioni simili, quindi prima di tutto c’è un richiamo alla piacevolezza. Ma non basta: l’espressione “Grazie!” è ellittica, perché omettiamo il verbo “rendere”. Quindi ogni volta che pronunciamo la parola “grazie”a qualcuno in realtà diciamo “ti rendo grazie”, cioè gli restituiamo le nostre espressioni di piacere per riconoscergli una gentilezza. Dal latino grazia deriva anche la parola “gratis”, che vuol dire senza costo, senza debito. Per riassumere fino a qui: piacevolezza, riconoscenza e senza costo sono significati legati al grazie.

Se però vogliamo approfondire ancora, i latini usarono la parola grazia per tradurre il greco charis che significa “avvenenza, favore, dono, ricompensa, benevolenza”; da “charis” attinsero anche per le parole “carus”, cioè che suscita sentimenti di affetto, e “caritas”, amore.

Che parola ricca di sgnificati! E noi che ce la dimentichiamo così spesso…

Come sempre, le parole non solo comunicano una realtà, ma prima ancora la definiscono e la rendono conoscibile. Lo si può evincere dagli studi del dottor Robert Emmons, psicologo da molti definito il guru della gratitudine a livello internazionale. Il dottor Emmons ha dedicato tutta la sua vita accademica e professionale allo studio degli effetti sulla persona e sulla società della gratitudine, andando oltre a chi la considera un mero gesto di buona educazione.

Gli effetti principali riscontrati agiscono su tre fattori:

  • psicologico individuale
  • sociale
  • benessere fisico

Educare alla gratitudine vuol dire innanzitutto prendere consapevolezza del bene che permea la nostra vita. Questo non vuol dire avere un atteggiamento naif che ignora le difficoltà, il dolore, i problemi, ma al contrario, vedere che c’è di più di ciò che ci schiaccia e ci appesantisce. C’è qualcosa che ci dà la possibilità di evolvere, di elevarci, di crescere, di superare le difficoltà e che si può presentare in tante forme: nell’aiuto offerto da qualcuno, nella conoscenza, perfino negli sbagli. Imparare ad essere grati di quel che abbiamo vuol dire che ne abbiamo coscienza, e maggiore è la consapevolezza maggiore è la nostra capacità di trarne beneficio. Quindi sul piano individuale la gratitudine ci aiuta a vivere consapevolmente il presente, a riconoscere le nostre capacità, i nostri talenti e a valorizzarli per costruirne nuovi, per lasciare un’impronta nel presente in cui viviamo. Per questo Bergoglio associa alla gratitudine il senso di dignità umana e individuale di ciascuno.

Educare alla gratitudine vuol dire anche riconoscere che il bene nella nostra vita è anche al di fuori di noi, e che ci può arrivare in maniera inaspettata e senza chiedere nulla in cambio, come la carità. Per cui la gratitudine blocca le cosiddette “emozioni tossiche” che possono corrompere la nostra felicità, come l’invidia e il risentimento. Come si può essere allo stesso tempo grati di ciò che si ha ed invidiosi di quel che ha qualcun altro? La gratitudine non solo quindi respinge le emozioni tossiche, ma apre e predispone verso quelle più positive, come la gentilezza, la cura, il rispetto, l’attenzione verso l’altro, che può farsi portatore del bene nella nostra esistenza. Ecco perchè si può legare la gratitudine alla giustizia sociale.

Ma non solo! Secondo uno studio pubblicato nel 2012 sul Personality and Individual Differences la gratitudine ha un impatto sulla nostra salute, e le persone sottoposte a vari esercizi di allenamento alla gratitudine mostravano un sistema immunitario più forte, meno dolori di vario genere (mal di testa, mal di schiena ecc), pressione sanguigna più bassa. Questo perchè il sentirsi grati di ciò che si ha spinge ad avere maggiore cura (“carus” di prima) di se stessi, che si traduce quindi in un maggiore benessere fisico e mentale.

Stasera, prima di addormentarti, prova a fare una lista delle cose di cui sei grato e delle persone a cui dire grazie.

Un primo passo per migliorare la tua vita.

Se volete approfondire, ecco un breve discorso dello stesso Emmons:

Mettersi all’opera o raggiungere il risultato?

Molti di voi, leggendo questo titolo, si saranno chiesti perchè ho usato la congiunzione “o”.

Forse avrebbe più senso usare “e”, o la preposizione “per”, giusto?

In teoria, concordo. In pratica, mi rendo conto che tante volte queste due azioni sono in contrasto: vi è mai capitato di lavorare tanto su un progetto, metterci impegno, energia, tempo… per poi ritrovarvi in un punto molto lontano dall’obiettivo del progetto stesso. Non sto parlando solo dell’ambito professionale, ma anche di obiettivi personali, come ad esempio scrivere un romanzo, perdere alcuni chili di troppo, allenarsi per una maratona…

Come mai?

Sulla base della mia esperienza questo accade per due motivi:

  1. Diamo poco spazio al pensiero, preferendo passare subito all’azione;
  2. Seguiamo consigli, percorsi, metodi che probabilmente sono stati validi per altri prima di noi, ma non vanno bene per noi.

Riguardo il primo punto, mi viene subito in mente l’ambito professionale. Tante volte mi è capitato di imbarcarmi in progetti senza che ci fosse stato il dovuto tempo per pianificare, analizzare, insomma “pensare”… Una volta, un docente a un corso di Time Management ci disse: “ma voi lo sapete che la vostra azienda vi paga per pensare?”; sul momento ci venne da ridere, gli rispondemmo cose del tipo “ci pagano per portare risultati” oppure “non siamo mica all’università” e via dicendo.

Oggi, però mi rendo conto che sempre più le aziende hanno bisogno di teste pensanti, che sappiano guardare con occhio critico a ciò che stanno facendo, siano essi lavoratori in produzione o in ufficio, e sappiano prendersene la responsabilità. Credo fermamente che la “accountability” sia una delle sfide del nostro tempo (lo scrivo in inglese perchè in italiano non c’è una parola a parte “responsabilità” che possa descrivere la responsabilità di ciò che si pensa, produce, fa). Per creare accountability c’è bisogno di prendersi tempo per pensare, analizzare.

Anni fa, in un’azienda di produzione, iniziarono a coinvolgere tutte le persone di produzione per creare una cultura nuova della sicurezza, visto che l’incidenza degli infortuni (anche se non gravi) stava aumentando. Quello che emrse in maniera chiara non era che mancassero le protezioni, le norme di comportamento, i dispositivi di protezione individuale, ma mancava l’attenzione delle persone verso quei comportamenti “leciti” che tuttavia potevano rappresentare un pericolo per la salute e la sicurezza degli altri. Esempio banale: il modo di impilare gli scatoloni di prodotto. Non c’entrava direttamente con la sicurezza, ma farlo in modo diverso poteva aiutare ad evitarne il rovesciamento in caso di urto o che qualcuno ci inciampasse sopra, quando le pile erano basse. Il tasso di infortuni si abbassò drasticamente e le persone si sentirono tutte ugualmente responsabili della sicurezza sul lavoro: non era più solo un affare del Responsabile Servizio Prevenzione e Protezione dell’azienda.

Vi faccio un altro esempio, più quotidiano: la spesa settimanale. In questo periodo di quarantena, per cercare di uscire il meno possibile, in famiglia abbiamo rafforzato l’abitudine di andare a fare la spesa solo una volta a settimana, a volte anche una volta ogni 10 giorni. Già prima, per ragioni di tempo, lo facevamo, ma poi capitava che rientrando dall’ufficio si passase a prendere “al volo” un po’ di pane, della frutta, un cartone di latte… Ora, si può procedere con un minimo di preparazione (esco e vado, magari se riesco prendo i sacchetti che ho già a casa), con il rischio poi di arrivare a casa e rendersi conto puntualmente che ci siamo scordati qualcosa. Allora la seconda volta ci facciamo una lista della spesa guardando ciò che ci manca in casa o sta per finire, e soddisfatti arriviamo a tre giorni dopo con nel frigo degli ingredienti che non sappiamo come mettere insieme per una ricetta soddisfacente (della serie: come combino un porro, una scatola di mais e della farina?). “Pensare” alla spesa per me vuol dire questo: quali sono i miei obiettivi? 1) andare a fare la spesa il meno possibile; 2) cucinare pasti decenti per tutta la famiglia; 3) evitare gli sprechi alimentari.

La soluzione che ho trovato è fare la lista della spesa avendo già un menù settimanale; quello che invece riguarda la cura della persona e della casa viene riacquistato quando inizio l’ultima confezione disposnibile in casa. È vero, richiede tempo prima – che sughi preparare, quando fare un piatto e quando un altro, i gusti di tutti i membri della famiglia… – ma poi rende l’esecuzione molto più semplice dopo. Inoltre fare questo per me è anche un atto di “accountability” verso gli altri e verso il pianeta, cercando di rispettare il più possibile le norme anti-contagio e di ridurre gli sprechi alimentari.

Il senso doi responsabilità indirizza il mio agire, per cui riesco a trovare il tempo e il modo di preparare attentamente tutto ciò che servirà per l’esecuzione della spesa settimanale.

Pensate alla potenza di riuscire a fare questo in ogni ambito della vita! Come ha scritto Simon Sinek nel suo celeberrimo libro “Start with Why”, parti dal perchè fai le cose: da lì ne deriverà accountability, pensiero, motivazione… e l’esecuzione sarà molto più efficace.

Secondo fattore che può impedirci di arrivare al risultato: seguire modelli senza farli propri. Non dico che ogni giorno dobbiamo reinventare la ruota, ma spesso cerchiamo di attenerci a istruzioni, processi, modelli, consigli senza davvero ragionare sul come NOI possiamo metterli in atto, sulle nostre capacità, competenze, talenti. Il focus a quel punto diventa l’azione, più che il risultato, trovandoci quindi alla fine a non averlo raggiunto o a non sentirci completamente soddisfatti di ciò che abbiamo compiuto.

Un esempio lampante sono i vari processi di “Performance Management” che io come HR facilitavo (o costruivo). Anche il processo meglio strutturato, con il software più all’avanguardia, con le policy più innovative, lasciava un senso di pesantezza e di inutilità nel manager e nel collaboratore se il tutto si riduceva a tirare una riga nella “to do list” del manager. Altra cosa quando il manager usava quell’occasione per rafforzare con un feedback strutturato la sua relazione con il collaboratore.

Lo stesso vale quando (finalmente) ci iscriviamo in palestra e usiamo tutti gli attrezzi disponibili senza indirizzare i nostri sforzi verso l’obiettivo che vogliamo raggiungere…e gli esempi potrebbero essere molteplici.

Questo è stato il motivo principale che mi ha spinto a studiare per aiutare le persone attraverso il coaching, perchè è un modo di arrivare al risultato che si basa su tre pilastri: consapevolezza (pensiero), accountability e azione individuale.

Anche se quel che si vede e si tocca è il risultato dell’azione, non consideriamo il “pensare” come un ornamento, un inglese “nice to have”.

E per dirla con le parole di Albert Einstein:

“I problemi significativi che affrontiamo non possono essere risolti allo stesso livello di pensiero con cui li abbiamo generati. Ci si deve elevare al livello successivo.”

Ricordando “Gattaca”

Riflessioni genitoriali


La prima volta che vidi il film “Gattaca” ero al liceo. Ricordo che mi colpì particolarmente non solo per la bellezza dei protagonisti (che comunque era stato il motivo principale per cui l’avevo guardato) ma soprattutto per il tema – poi ripreso in altri film – della manipolazione genetica.

In pratica, in questo futuro non tanto prossimo, i genitori concepiscono i figli unicamente in laboratorio, selezionando i loro geni in modo che la progenie non solo sia sana e robusta, ma risponda anche al gusto dei genitori in fatto di colore degli occhi, dei capelli, di altezza… Coloro che invece vengono concepiti naturalmente, potendo essere soggetti a difetti (anche banalmente una miopia), sono catalogati come “non validi” e relegati a una classe sociale inferiore.

È giusto? È sbagliato? Perchè alcune coppie decidevano comunque di concepire i figli naturalmente?

Non voglio oggi entrare nel tema etico della manipolazione genetica, ma fare una riflessione su questo film dalla prospettiva di genitore quale sono.

Quello che sperimento vedendo i miei figli crescere è insieme speranza e timore: speranza, per il loro futuro, tutto quello che potranno fare, per il lavoro che potranno avere, per la loro realizzazione personale e il loro impatto sulla società; timore, esattamente per le stesse cose. Credo che sia un contrasto emotivo che almeno una volta hanno vissuto tutti i genitori.

Nel film si parla esattamente di questo: perchè non fare di tutto affinchè sia la speranza a vincere sul timore? Affinchè le probabilità di successo non siano il più vicine possibile al 100%?

Il punto sta proprio in quel dato: nessuno può garantire un successo al 100%. Nel film, il protagonista “non valido” incontra un “valido” che però, avendo subito un grave incidente, è paraplegico e quindi non può realizzare le sue aspirazioni di diventare un astronauta.

Come scelta personale e di coppia, non abbiamo fatto test prenatali ai nostri figli. Li avrei accettati comunque, anche malati o con difetti genetici. La mia difficoltà, però, sta nell’accettarli comunque per le scelte che – anche se ancora bambini – fanno. Perchè non sono gentili l’uno verso l’altra? Perchè mi dicono bugie? Perchè non fanno qualcosa di costruttivo invece di fare i “coach potato*”?

(*espressione che mi piace un sacco: patata da divano, ottima metafora)

Credo che la risposta sia che le scelte dei figli mi sembrino “controllabili”, a differenza del loro corredo genetico. In quanto variabili controllabili, dovrebbero andare secondo l’educazione, i modelli e l’esempio forniti. E quando non è così, la speranza lascia spazio alla paura.

La paura è potente. La paura ha fatto sì che il cervello dell’uomo evolvesse. La paura fa rilasciare l’adrenalina, ormone che ci aiuta a compiere sforzi fisici enormi, sopportare il dolore, acuire tutti i sensi. La paura però porta anche a metterci sulla difensiva, a innalzare muri relazionali, a non fidarci, a voler ridurre tutto e tutti sotto il nostro controllo.

In questo momento di quarantena – ormai è più di un mese che i bambini non escono dalle 4 mura di casa, molto di più che non vanno a scuola o fanno sport – la loro capacità di gestire le emozioni, la fatica, la solitudine, l’attenzione nel fare i compiti è messa a dura prova e quindi sono più facilmente irritabili, emotivi, arrabbiati.

Non posso guardare la loro indolenza con il filtro della paura. Non sarà un compito fatto male oggi a pregiudicare la loro capacità di imparare in futuro; non sarà lo scatto d’ira ad aprire le porte a un futuro di delinquenza.

Photo by Samuel Silitonga on Pexels.com

Quello che maggiormente li può aiutare è che io li guardi attraverso le lenti della speranza e della fiducia.

Solo così le regole, l’educazione, la conoscenza non saranno per loro cose da cui difendersi, ma strumenti che li aiuteranno ad affrontare la vita, consci che i loro genitori li supportano.

Si sentiranno accettati, sia per il loro corredo genetico che per le loro scelte.

La penuria di lievito, una riflessione sul Talento

Nelle situazioni straordinarie come quella che stiamo vivendo, ogni società si “attacca” a qualcosa di diverso. C’è chi ha dato l’assalto alle armerie. Supermercati in cui è sparita in pochi giorni la carta igienica. In Italia, è esaurito il lievito.

Ma la mia riflessione non sta tanto sui novelli pizzaioli o i riscoperti panificatori italiani, sta nel fatto che – dopo un primo momento di sgomento – hanno iniziato a fioccare ovunque (social, chat di gruppo ecc) ricette per fare il pane e i dolci senza lievito o come anche utilizzare agenti lievitanti alternativi.

Questo mi ha fatto riflettere e spinto a scrivere questo post.

Il lievito mancante è la nostra famosa “area di miglioramento”, per essere politically correct, o la nostra “debolezza” per dirla alla vecchia.

Quante volte sul lavoro, ma anche in contesti diversi, ci è stata fatta notare? E ci è stato chiesto di migliorarla? “Sei poco empatico! Devi essere più empatico!” “Perchè sei così poco proattivo? Non dici mai niente alle riunioni! Di cosa hai paura?” e così via. E quante altre volte, nonostante i nostri sforzi, il miglioramento atteso è stato sotto le aspettative?

Il punto è che esistono agenti lievitanti alternativi. Sì, non è la stessa cosa, sì sono pù complicati, ma esistono.

Questo vale anche per noi, nella gestione dei nostri Talenti.

Da quando mi sono avvicinata alla metodologia “CliftonStrengths”, che prende il nome dallo psicologo Don Clifton, ho avuto una rivelazione su un altro modo in cui lo sviluppo personale può prendere forma. Ovvero, lavorare sui punti di forza, sui Talenti, invece che concentrarsi sui punti di debolezza.

Cosa cambia? TUTTO.

Prima scoperta: investire sui propri punti di forza aiuta a focalizzarci sul positivo, su ciò che già possediamo come Talento individuale, e questo è davvero un propulsore della motivazione. Quante volte abbiamo associato al “piano di sviluppo” un senso di frustrazione? Della serie: se ho bisogno di un piano di sviluppo vuol dire che c’è qualcosa che non va. Proviamo invece a pensare al piano di sviluppo come alla ristrutturazione e all’ampliamento di una casa: le fondamenta, i muri portanti, il tetto già ci sono, è solo questione di esaltarne la bellezza, di sostituire qualche parte rovinata, di ampliare qualche locale che è diventato troppo stretto.

Il piano di sviluppo quindi diventa: dato che ho già dei Talenti, proviamo a svilupparli ancora in modo che mi aiutino ad essere sempre più efficace nelle situazioni quotidiane (nelle relazioni, nelle decisioni, nel perseguire in generale degli obiettivi).

A questo punto la domanda – come direbbe qualcuno – sorge spontanea: e quello che manca? Se io devo prendere una decisione ma non sono abbastanza analitico?

Seconda scoperta: non c’è un solo modo di fare le cose. Ognuno di noi è diverso e ha le capacità per ottenere dei risultati. C’è chi ha le capacità per seguire la “strada maestra”, ovvero la via più consolidata, più conosciuta per fare le cose – se devo fare la pizza in casa, compro il lievito di birra fresco – e chi invece deve seguire vie secondarie, o addirittura tracciarne una nuova – vedi l’uso dei lievitanti alternativi.

Quindi se devo prendere una decisione ma non sono una persona analitica, cosa posso fare? Magari ho un talento per proiettarmi in avanti e immaginare come vorrei che fosse il futuro dopo la mia scelta; oppure sono una persona che apprende attraverso gli altri e chiedendo a persone di cui mi fido posso chiarirmi meglio le idee; magari ancora sono una persona che fatica a vedere la decisione nel dettaglio se non inserita in un quadro più ampio, che dà una prospettiva e una importanza diversa alla scelta stessa.

Lavorare sulle strade alternative è più faticoso, perchè spesso non c’è un esempio da imitare e ancor più spesso le persone intorno tenderanno a darti un feedback rispetto sempre alla soluzione consolidata: eppure, imparando ad allenare i propri talenti, ogni persona potrà trovare una modalità efficace e propria per dare un contributo alle situazioni che sarà – come ogni individuo – unico.

Cogliamo l’opportunità delle mancanze – che sia del lievito o dell’estroversione, l’analiticità, l’empatia – per trovare modi nuovi ma non meno efficaci per affrontare le situazioni.

Continuerò nei prossimi post a parlare di Talento, continua a seguirmi!

L’isolamento e la connessione (anche quando cade la Rete)

In questo periodo, così incredibile e inaspettato, sui vari Social impazzano immagini divertenti che tirano fuori il lato ironico della situazione. Una di quelle che mi piace di più è l’immagine di Igor (tratto da “Frankenstein Junior” – un impareggiabile Marty Feldman) che dice: “Potrebbe andare peggio. Potrebbe non funzionare Internet”.

Quale disgrazia! Internet è diventato prezioso come l’aria: non potremmo più fare smart working, gli houseparty con gli amici, le videochiamate con la nonna, guardare i film e le serie tv in streaming, stalkerare le persone sui Social, ordinare cibo pronto o (ma non funziona comunque) fare la spesa online, aggiornarci sul COVID19 tramite le notifiche push delle app delle testate giornalistiche… Ma se davvero dovesse succedere?

Quando si condivide un appartamento con altre 3 persone, di cui 2 di età inferiore ai 10 anni, la cosa che più manca è il silenzio. Ma di notte, quando tutti dormono, eccolo. E allora la mia mente e il mio cervello trovano spazio per rilassarsi e riflettere, lasciar fluire le emozioni e – come dice la mia app di Yoga preferita – ammorbidire il cuore.

E nell’isolamento e nella solitudine silenziosa ho riscoperto il significato che ha per me la parola “connessione”. Per me, che ho secondo il test di personalità “CliftonStrengths” proprio Connessione come primo e predominante Talento, la domanda che è sorta dopo la prima settimana di reclusione in casa è stata: ma come faccio a connettermi con gli altri se non posso nemmeno stare con loro?

Può l’isolamento essere un ostacolo alla connessione?

No.

Ho capito che l’isolamento che stiamo vivendo tutti – e dico tutti, ormai a livello mondiale – è come il crogiolo per il metallo, che ne esalta la purezza eliminando le scorie. Mi sono resa conto di quanto confondessi la connessione con gli altri con lo stare in mezzo agli altri. Lavoro con te, parlo con lei, esco con loro. Ma siamo davvero connessi?

Creare connessione vuol dire essere in grado di rispondere a un bisogno profondo dell’altra persona in modo tale che nè il tempo nè lo spazio possano in qualche modo intaccarla.

Come fare a capire quale sia questo bisogno? L’isolamento ci viene in aiuto. Nel silenzio, nella solitudine, nella noia, quali domande sorgono in noi? Quali dubbi? Paure? In quei momenti di vulnerabilità capiamo che l’autosufficienza è un mito. Che il “posso fare tutto da solo” è una bufala, che la felicità non è un cammino solitario.

Se lo fosse, saremmo tutti al massimo in questo momento, super performanti e felici.

Magari a volte è così, ma non tutti i giorni e tutto il giorno. Lo vediamo dalle persone che si mettono in coda volontariamente  alle poste pur di parlare con qualcuno (cosa che probabilmente prima odiavano fare), dalle telefonate ad amici che non sentivamo da tanto solo per un saluto e per sapere se “lì da loro” va tutto bene, fino ai flash mob e ad altri momenti comunitari a cui ci aggreghiamo perchè il nostro senso di appartenenza ha fame di connessione.

Io personalmente sto cogliendo questa faticosa opportunità per mettermi in ascolto della mia ed altrui vulnerabilità. In casa, coi bambini super agitati e urlanti, mi chiedo: come stanno vivendo la lontananza forzata dagli amici, dalle loro abitudini, lo sport, le uscite? Come posso accogliere e aiutarli a gestire le loro emozioni? Cosa posso imparare da loro? Cosa posso fare per supportare mio marito, che continua a lavorare nell’incertezza? E quando a sera mi sento esaurita e stanca, posso esprimere la mia stanchezza senza sensi di colpa accettando un aiuto o semplicemente la mia imperfezione.

Vivendo io per prima in questo modo, senza aspettarmi nulla dagli altri, si è innescato un circolo virtuoso, che io chiamo reciprocità. C’era anche prima, ed è ancora più forte oggi.