Di Goethe, quarantena e limiti

Josef Stieler – Johann Wolfgang von Goethe

Sono passati un po’ di giorni dall’ultimo post e me ne scuso. So che un vero blogger scrive quotidianamente, ma questi ultimi giorni sono stati di forte cambiamento dei normali ritmi casalinghi… e non solo perchè ci troviamo a dividere in 4 la nostra casa 24/7, ognuno con esigenze diverse, ma soprattutto perchè in questi giorni sono diventata ancora più centrale per il mantenimento degli equilibri familiari.

Da una parte, la mia preoccupazione di continuare a lavorare – e come altre persone con P.Iva sto risentendo dello stop nazionale – e dall’altra la gestione di chi guarda a me come un punto di riferimento. I miei figli in primis, per l’aiuto nella didattica a distanza, nella costruzione di attività che li portino un po’ distante dagli schermi, i familiari soli o lontani, mio marito che comunque lavora per le faccende domestiche, la cucina… Ad un certo punto mi sono sentita sopraffare.

E qui mi è venuto in aiuto il vecchio amico Goethe:

Uno non ha che dichiararsi libero, ed ecco che in quello stesso istante si sente limitato. Abbia solo il coraggio di dichiarasi limitato, ed eccolo libero.

Questa direi che è la lezione più importante della mia quarantena: riconoscere e accettare i miei limiti. Accoglierli come parte di me. Accogliere il fatto che non posso essere sempre al 100% delle energie, che certe volte vorrei smettere di cercare materiali di riciclo per i lavoretti di mia figlia e ordinare un prodotto già fatto su Amazon, che non sopporto i capricci di mio figlio ogni santo giorno quando dobbiamo iniziare a fare i compiti, che la cesta con i panni da stirare può aspettarmi piena un giorno ancora… E accettare il fatto che chiedere aiuto non è segno né di debolezza né un modo per scaricare sugli altri le mie responsabilità.

Tante volte mi capita, dato che il mio lavoro è cercare di supportare gli altri nella crescita personale, di pensare di non poter gravare sugli altri anche con le mie esigenze, portandomi – come diceva Goethe – a sentirmi limitata. Limitata nell’espressione della mia stanchezza, della mia voglia di fare qualcosa per me stessa, nelle emozioni.

Riconoscere che anche io “posso” concedermi di non rispondere alle aspettative di tutti in qualsiasi momento mi dà due grandi libertà: la prima è quella di poter lavorare sui miei limiti invece che nasconderli sotto il famigerato tappeto; la seconda è quella di riconoscere lo spazio di “avanzata” delle persone che sono intorno a me: aiutare gli altri significa anche aiutarli ad aiutare a loro volta, trovando modalità di incontro in cui ciascuna delle parti è chiamato a fare un passo nella direzione dell’altro.

In questo momento di limitazione, sia fisica che relazionale, in cui impera il “non poter fare”, la mia libertà è nel saperla accogliere ed accettare per il mio attuale e futuro “poter essere”.

Giù le mani da Walt Disney!

Sull’importanza del lieto fine

Lo so che il tuo lato cinico è già stato solleticato dal sottotitolo. La vita è dura. Le principesse, i principi azzurri… inesistenti. La magia è per i bambini.

Walt Disney – 1946

Quello che invece vorrei sottolineare oggi è appunto l’importanza del lieto fine. Walt Disney ne è stato (ed è) l’emblema, ma se prendiamo la stragrande maggioranza di film e libri che leggiamo, ci renderemo conto che narrano storie che vanno a finire bene. L’assassino viene catturato. Il cattivo di turno sconfitto. La coppia inizialmente male assortita diventa un’unione perfetta. La persona che vive in un contesto disagiato alla fine si afferma in un campo della vita.

La maestria che tutti (anche i più critici) hanno dovuto riconoscere al nostro Walt è stata l’abilità nel raccontare la storia giusta e di esaltarne il valore positivo. Ne “il Re Leone” Simba alla fine diventa Re, ma di cosa? Un terreno arido e senza vita. E lo fa perdendo suo padre e infine anche suo zio e molta parte del suo branco. Accettando di convivere per sempre con I suoi errori.

Eppure uscendo dal cinema non eravamo tristi, perchè tra il suo ruggito alla Rupe dei Re davanti a un paesaggio devastante e la fine c’è una nuova alba, una nuova vita, la savana rifiorita. In mezzo – anche se non lo vediamo – c’è il duro lavoro di un Re inesperto che eredita un deserto e lo fa germogliare di nuovo.

I lieto fine ci piacciono, ma soprattutto, ne abbiamo bisogno. Aggiungo anche: i lieto fine esistono nella vita reale.

Dipende solo a che punto mettiamo la parola fine alle nostre storie.

Una delle parole più in voga oggi nelle aziende e nei corsi di formazione è “storytelling”. Non basta più dire che cosa si sa fare, quali sono le caratteristiche tecniche del nostro prodotto o servizio, adesso per catturare l’attenzione e il cuore dei potenziali clienti bisogna raccontare loro (bene) una storia.

Il cuore dell’arte di raccontare storie, che fa parte della trasmissione della conoscenza fin dall’antichità, sta nel rendere più accessibili contenuti complessi e di coinvolgere la sfera emotiva oltre a quella razionale di chi ascolta.

La nostra sfera emotiva ha un potere enorme che potremmo aver sottovalutato. L’emozione arriva prima del pensiero e può contribuire a plasmare il pensiero stesso, perchè è strettamente collegata alle nostre percezioni. Pensa a questo: nel cuore della notte un rumore ti sveglia. È completamente buio e non riesci a vedere cosa ha originato il rumore. L’emozione della paura arriva prima del riconoscimento razionale dell’origine del rumore (un vicino di casa che ha sbattuto il portone entrando o uscendo) e attiva il sistema nervoso, accelerando I battiti cardiaci e mettendo in circolo l’adrenalina necessaria per scappare o nasconderci. Ma la stessa reazione può succedere quando il nostro responsabile in ufficio arriva urlando contro di noi o quando dobbiamo salire su un palco e fare un discorso davanti a una platea.

Le storie ci fanno vivere quelle emozioni, facendoci sentire parte di quel momento, anche se vissuto da un protagonista molto diverso da noi (come un leone della savana). E se sappiamo metterne in risalto la parte positiva, ciò che il protagonista ha imparato da ciò che gli è accaduto, come è riuscito nonostante tutte le avversità ad ottenere un risultato, l’impatto che le sue azioni hanno avuto sulle altre persone vicine, allora il nostro pensiero sarà plasmato da una visione positiva della vita.

“C’è ancora del buono qui”, “Ce la posso fare anche io”, “Voglio provare a fare come il protagonista”, queste saranno le frasi che riecheggeranno nella nostra testa.

Solo che, il più delle volte, i lieto fine ci passano accanto e non sappiamo neanche riconoscerli. Perché non ci fermiamo più a cercarli, catapultati come siamo nella prossima attività, nelle distrazioni date dal bombardamento di informazioni a cui siamo sottoposti. E in tutto quel correre e affannarci, ci fermiamo solo quando non ce la facciamo più, quando siamo stanchi e non vediamo nessuna luce in fondo al tunnel (e nemmeno più vediamo il tunnel): quale credete che siano i pensieri a quel punto? Positivi? Improbabile.

Prendersi del tempo per analizzare i successi ha un impatto motivante e ci spinge all’azione molto più che analizzare gli errori. Solo che a volte non sappiamo nemmeno più riconoscere i nostri successi!

Questo è la sfida che ti voglio proporre: ogni sera, prenditi 5 minuti per trovare un lieto fine alla tua giornata, qualcosa che hai imparato, un risultato raggiunto, e poi costruisci a ritroso la storia che ti ha portato lì. Imparerai a nutrirti delle giuste emozioni positive riguardo a te stesso, alla tua vita e alle tue relazioni… per vivere “per sempre (un po’ più) felice e contento”.

Mascherina sì, mascherina no…

Come l’Euristica della disponibilità e l’Effetto Dunning-Kruger ci stanno influenzando… molto più del Coronavirus.

L’evolversi rapido della diffusione dei contagi di COVID19 nel nostro Paese, oltre che nel resto del mondo, ha fatto sì che le precauzioni sanitarie diventassero prescrizioni.

In poche parole: sabato eravamo in allegria a festeggiare il Carnevale a Venezia, domenica saccheggiavamo le farmacie in cerca di gel disinfettanti e mascherine, lunedì (oggi) tutti tappati in casa.

Cosa ha portato una buona parte della Nazione (principalmente il Nord, visto da dove è partito il contagio) a questo repentino cambio di atteggiamento?

Da un lato i giornalisti, che oramai vivono solo di questa notizia (con buona pace degli incendi in Australia, di Trump e della crisi in Libia) e che fa da volano alle notizie politiche; dall’altro il passaparola, le chat intasatissime, i social.

Questo bombardamento di informazioni al nostro cervello fa scattare quella che i due psicologi Amos Tversky e Daniel Kahneman hanno chiamato nel 1973 “euristica della disponibilità”.

Questa euristica è una scorciatoia mentale che fa sì che le persone siano più portate a dar credito alle informazioni che si richiamano più facilmente alla memoria di altre, considerate quindi meno rilevanti.

Nelle prime indagini di Euristica della disponibilità di Tversky & Kahneman fu chiesto a dei soggetti: “Se una parola casuale è tratta da un testo inglese, è più probabile che la parola inizi con una K, o che K sia la terza lettera?” Il presupposto era che alle persone di lingua inglese sarebbero facilmente venute a mente immediatamente molte parole che iniziano con la lettera “K” (kangaroo, kitchen, kale), mentre ci sarebbe voluto uno sforzo più concentrato per pensare a qualsiasi parola in cui “K” è il terza lettera (acknowledge, ask). I risultati hanno indicato che i partecipanti hanno sovrastimato il numero di parole inizianti con la lettera “K” ed hanno sottovalutato il numero di parole che avevano “K” come terza lettera. Tversky e Kahneman hanno concluso che le persone rispondono a domande come queste confrontando la disponibilità delle due categorie e valutando la facilità con cui possono richiamare queste istanze. In altre parole, è più facile pensare alle parole che iniziano con “K”, più che a parole con “K” come terza lettera. Pertanto, le persone giudicano le parole che iniziano con una “K” come un evento più ricorrente. In realtà, un testo standard inglese contiene il doppio delle parole che hanno “K” come terza lettera rispetto a “K” come prima lettera. Ci sono tre volte più parole con “K” nella terza posizione rispetto alle parole che iniziano con “K”.[i]

Questo a quanto pare vale anche con le immagini, visto che la razzia di mascherine di carta, peraltro più volte indicate come inutili nella difesa contro il virus in oggetto, potrebbe essere stata causata dalle molteplici immagini di persone che le indossavano associate ad articoli o a servizi giornalistici.

Ma non fermiamoci qui: proviamo ad aggiungere all’euristica quello che dal 1999 è noto come “effetto Dunning-Kruger”[ii]. I due psicologi, da cui il nome dell’effetto, hanno condotto una serie di studi sulla capacità di autovalutazione delle persone in merito a determinate conoscenze. Sintetizzando i risultati, le evidenze ci richiamano le parole di Socrate “So di non sapere”: maggiore è la competenza di una persona in un determinato ambito di conoscenza, maggiore è la consapevolezza di quanto ancora ci sia da studiare e approfondire e quindi la sua autovalutazione tenderà a sottostimare l’effettiva competenza. Al contrario, chi meno è esperto del medesimo ambito, tenderà a sovrastimare la sua competenza in quanto all’oscuro di tutte le possibili informazioni aggiuntive.

Quanto ognuno di noi può dirsi virologo/Medico/Epidemiologo? Eppure ciascuno in questi giorni si sarà fatto un’idea e avrà commentato statistiche sulla mortalità del virus, la sua contagiosità, le sue origini; e più ci sentiamo padroni della materia più le informazioni che ci arrivano andranno a confermare (confirmation bias, altro trucchetto del nostro cervello che seleziona le informazioni che vanno a confermare un’idea che reputiamo più vera) ciò che crediamo.

Quindi, cosa fare?

I consigli sono semplici:

  1. Dato che non possiamo essere esperti di tutto, dobbiamo fidarci di persone competenti (medici, virologi) senza supporre che ci stiano per forza nascondendo qualcosa;
  2. Seguire le indicazioni sanitarie di base senza cadere nell’estremismo (come ad esempio ordinare una tuta anti bio-hazard su Internet per andare a lavorare);
  3. Ricordarci che il nostro cervello è efficiente, e vuole fare il minimo sforzo: quindi invece che lasciarlo guidare sulle scorciatoie della mente, fermarsi un attimo e usare la nostra capacità analitica per riportarlo sulla strada – meno economica – della razionalità.

[i]Da WIKIPEDIA: Amos Tversky e Daniel Kahneman, Availability: A heuristic for judging frequency and probability, in Cognitive Psychology, vol. 5, nº 2, 1973, pp. 207–232, DOI:10.1016/0010-0285(73)90033-9ISSN 0010-0285 (WC · ACNP).

[ii] “Unskilled and unaware of it: how difficulties in recognizing one’s own incompetence lead to inflated self-assessments.”J Kruger, D Dunning – Journal of personality and social psychology, 1999

5 semplici esercizi per allenare il tuo cervello ogni giorno

Cercando “brain training” su Google ti appaiono circa 890 milioni di risultati, quindi sappiamo che questo non è il primo nè l’ultimo articolo sul tema che leggerai.

Oggi però voglio darti 5 semplici suggerimenti non solo per avere un cervello più attivo e “sveglio”, ma vorrei aiutarti a far sì che sia anche un cervello più felice.

Come scrivevo ieri nel mio articolo “Sono fatto così!… adesso.”, il nostro cervello è costituito da una rete di neuroni collegati da sinapsi e, sebbene la capacità di creare sinapsi sia molto più forte nei primi anni di vita, durante tutta la nostra esistenza possiamo continuamente rafforzare, indebolire e creare o eliminare delle connessioni. Tutto ciò attraverso l’allenamento, ovvero la consapevole attività di esercizio, come andare in palestra per i nostri muscoli.


Bibliografia di riferimento:

“Coupling of Respiration and Attention via the Locus Coeruleus: Effects of Meditation and Pranayama” (Melnychuk, Michael; Dockree, Paul; O’Connell, Redmond; Murphy, Peter; Balsters, Joshua; Robertson, Ian. 2018/03/27 – Psychophysiology)

“Reduction of Movement in Neurogical Diseases: Effect on Neural Stem Cells Characteristics” (Adami, Raffaella; Pagano, Jessica; Colombo, Michela; Platonova, Natalia; Recchia, Deborah; Chiaramonte, Raffaella; Bottinelli, Roberto; Canepari, Monica; Bottai, Daniele. 2018/05/23 – Frontiers in Neuroscience)

“The Role of Positive Emotions in Positive Psychology. The Broaden-and-Build Theory of Positive Emotions”. Fredrickson, B. L. (2001). American Psychologist, 56, 218–226.

http://esciencecommons.blogspot.com/2013/12/a-novel-look-at-how-stories-may-change.html

https://centerhealthyminds.org/join-the-movement/innate-kindness

“Sono fatto così!”…adesso.

Accettare se stessi vuol dire accettare che possiamo cambiare

Durante l’ennesima discussione con mio figlio di otto anni (solite cose, sul disordine delle sue cose, sui libri di scuola dimenticati, sui dispetti alla sorella..), lui se n’è uscito con la mitica frase “ma io sono fatto così! Non mi puoi cambiare!”.

Ti suona familiare? Sul momento mi ha spiazzato sentirla uscire dalla bocca di un bambino, ma tante altre volte mi è capitato di sentirlo dire da colleghi, familiari, amici. “Sono fatto così” è la frase che vuole mettere un punto alla discussione: se l’altro controbatte, si sfodera l’arma del senso di colpa “perchè mi vuoi cambiare? Non ti vado più bene? Mi vuoi far diventare quello che non sono!”.

Ma quando siamo diventati così? Ed è vero che non possiamo più cambiare?

Il cervello umano conta circa 68 miliardi di neuroni, ognuno dei quli connesso agli altri attraverso un elevatissimo numero di collegamenti, le sinapsi. In passato si credeva che la struttura del cervello si definisse nei primi anni di vita, per poi restare immutata nell’età adulta. Oggi, invece, diversi studi sulla neuroplasticità hanno rivelato che la struttura del cervello continua a cambiare, anche se più faticosamente di un cervello giovane, in risposta all’apprendimento.

Gli studi sulla neuroplasticità sono iniziati alla fine del 1800 (con alcuni precursori che già ne parlavano agli inizi del XIX sec), fino ad arrivare a definire questa capacità del cervello di modificarsi sia a livello strutturale (ovvero la capacità di creare, rafforzare, indebolire o eliminare le sinapsi), sia a livello funzionale (ovvero la capacità di adibire altre aree del cervello a una funzione specifica, come la capacità di parlare, quando l’area preposta viene danneggiata).

Che impatto ha la capacità del cervello di modificarsi nella nostra vita? Potenzialmente, un impatto enorme.

Potenzialmente, certo. Perchè se continuiamo a fare le stesse cose, avere gli stessi atteggiamenti nei confronti delle persone, e fondamentalmente ci chiudiamo ad ogni forma di apprendimento, allora il nostro cervello non avrà molti stimoli per cambiare e quindi la sua plasticità ci interesserà meno di zero.

Se invece pensiamo alle innumerevoli possibilità che abbiamo (considera che il nostro cervello a 3 anni di età aveva circa 15.000 di sinapsi per neurone… da moltiplicare per 68 miliardi… un bell’hardware!) di apprendere cose nuove, di rafforzare certe connessioni, ma anche di eliminarne altre, possiamo davvero ogni giorno arrichire noi stessi di qualcosa di diverso.

La differenza sta nella mentalità, nell’approccio, o per dirla in inglese, nel “mindset”. Carol Dweck, professoressa di psicologia all’Università di Stanford, ha iniziato già oltre 30 anni fa a parlare dell’importanza del mindset come risorsa per lo sviluppo non solo psicologico della persona ma fisiologico del cervello. Il suo “growth mindset” è un approccio che evidenzia (attraverso esperimenti condotti in scuole di vario ordine e grado) come focalizzarsi sull’impegno verso l’apprendimento e non sul risultato, sulla propria capacità di imparare rispetto al cambiamento che si vorrebbe ottenere, aiuti ad essere più resilienti, più aperti verso l’innovazione e l’assunzione del rischio, e alla fine a performare meglio.

Quante volte sarà successo anche a te di aver studiato tanto e di aver preso un voto più basso di quello che ti aspettavi: non ti sei sentito anche tu un po’ sconfortato? O forse anche stupido? Perchè il tuo era un approccio orientato al risultato e non all’apprendimento.

Il focus sul risultato finale può essere molto motivante nel breve termine e anche nel medio se I risultati attesi arrivano, ma può essere anche un boomerang nel caso di insuccesso: ti porta a pensare che non vale la pena sforzarsi tanto, che forse mi sono sopravvalutata, che è meglio lasciar perdere. È quello che ti può portare a pensare: “sono fatto così, con questi limiti insuperabili”.

Il focus sull’apprendimento invece considera un fallimento, un errore, come uno degli step del percorso di apprendimento (non sempre lineare e già ben definite) e può portare benefici sul lungo periodo: apprendere dagli errori, costruire sulla propria esperienza e valorizzare I propri punti di forza ti possono aprire strade mai pensate fino ad allora, scoprire cose di te che neanche tu sapevi di avere, abbracciare le sfide invece che rifuggerle e quindi poter dire “sono fatto così, adesso… ma domani potrei essere una versione migliore di me stesso”.

Per approfondire: “Mindset. Cambiare forma mentis per raggiungere il successo” (Carol S. Dweck, 2019, FrancoAngeli Ed.)

Oggi è il giorno per fare a pezzi un elefante

Non me ne abbia il WWF…

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Oggi sono stanca, oggi mi hanno riempito di lavoro, oggi ne ho troppo da fare…

Quante scuse ci diciamo per rimandare quello che vorremmo (o dovremmo) fare? Che siano grandi progetti come cambiare lavoro, trasferirsi in un’altra città, cambiare stile di vita o iniziative come iscriversi in palestra (e frequentare!!!), rimettere ordine in cantina o semplicemente leggere quell libro che ci hanno regalato tanto tempo fa, a volte ci sembra che oggi non sia mai la giornata giusta.

Invece oggi è tutto ciò che abbiamo.

Riguardando per l’ennesima volta Kung Fu Panda con mia figlia, mi colpisce sempre quando il maestro Oogway dice: “C’è un detto: ieri è storia, domani è un mistero, mo oggi è un dono…per questo si chiama presente!”. Collegare l’oggi, l’adesso, il presente con il dono… sono andata a vedere nel dizionario etimologico, e ho trovato che “presente” è composto da due parole latine: pre- (innanzi, davanti) e sum (verbo essere), ovvero qualcosa che tis ta dinanzi agli occhi, è qui, e ti viene offerto (quindi donato).

Perchè allora ignoriamo questo dono? Perchè lunedì, domani, l’anno prossimo, quando andrò in pensione (ah ah!) sono meglio?

Ci possono essere due risposte.

La prima è la più ovvia: non è davvero una cosa importante per noi. È quasi doveroso dopo le feste natalizie dire che ci si iscriverà in palestra per smaltire, per prepararci alla prova costume, ma in fondo non ne abbiamo realmente voglia e stiamo pianificando le ferie estive in montagna. Però sentiamo una sorta di obbligo che deriva dal fatto di sentirci anche superficialmente parte di quella società che ci vuole tutti più sportivi e in forma. Allora semplicemente: smettiamo di angosciarci se non andiamo in palestra e passiamo oltre. Se fossimo realmente convinti che la palestra è una priorità troveremmo il tempo. E questo guida alla seconda risposta: se è davvero prioritario e comunque non troviamo il tempo per farlo è perchè non sappiamo come farlo.

Se ho tanta voglia di vedere come va a finire quell libro, spengo la tv e lo leggo. Semplice e lineare. Ma se si tratta di cambiare lavoro? O di trasferirsi in un’altra città (o Paese)?

Ci sembrano cose così complesse che il solo pensiero ci fa mancare il respiro, strabuzzare gli occhi, e a quel punto abbiamo già incosciamente aperto I cancelli delle scuse che facciamo entrare a frotte nella nostra mente.

Ma come dice un altro detto, dobbiamo imparare a “tagliare l’elefante a fette”. Un problema complesso lo si può affrontare suddividendolo in una serie di problemi più semplici, che messi nell’ordine giusto possono portarci dove volevamo arrivare.

Possiamo per esempio partire da queste 7 macro-categorie che ci possono aiutare a raggruppare tutti I sotto-problemi (che preferisco chiamare “fattori chiave”) che verranno fuori dalla nostra procedura di affettamento:

  1. Tempo (definire le scadenze e il tempo necessario da dedicare a ciascuna attività)
  2. Energia (livello di energia, di impegno, di “fatica” connessi all’attività da svolgere)
  3. Soldi/risorse materiali (investimenti, spese, strumenti da comprare…)
  4. Stato fisico e mentale (implicazioni emotive, ripercussioni positive o negative sulla nostra salute, conoscenze e competenze necessarie)
  5. Supporto sociale (abbiamo una rete di persone a supporto? Come semplice sostegno e incoraggiamento ma anche come mentori, insegnanti, rispetto a quello che vogliamo ottenere?)
  6. Divertimento, piacere (fattore da non sottovalutare, soprattutto se il problema richiede un impegno costante per un periodo lungo di tempo: cosa ci piace delle cose che dobbiamo affrontare? Come le mettiamo insieme ai nostri doveri?)
  7. Significato (ultimo ma non per importanza: qual è il significato più profondo dell’affrontare tutto questo? Quali le nostre aspettative in caso di successo, non solo dal punto di vista del mero raggiungimento dell’obiettivo, ma per la nostra felicità)

Se riusciamo a inserire tutte le parole, attività, dubbi che abbiamo in ogni categoria riusciremo intanto a fare ordine in quella marea di pensieri ed emozioni che prima temevamo ci travolgesse. Dopodichè analizziamo ciascun fattore: se ad esempio il “significato” di trasferirmi in un’altra città è fuggire da qualcosa o da qualcuno, siamo sicuri che quello sia il metodo giusto? L’allontanamento fisico è sufficiente? Ci sono alternative?

Così, senza pensarci troppo, avrete già fatto qualcosa in merito a quell problema o progetto, e l’avrete fatto oggi.

Non è colpa del tuo capo!

Come sgombrare le relazioni in ufficio dalla frustrazione

Premesso che non amo la parola “capo” in quanto mi ricorda un concetto obsoleto di azienda, devo ammettere che ancora oggi in Italia questa parola è diffusa nelle aziende, soprattutto di matrice italiana e imprenditoriale. Ma se anche lavori in una multinazionale dove si parla solo di manager e leader, coordinator e vice president, credo che tu abbia capito di cosa sto parlando.

Ho letto tantissimo sulla centralità della figura del manager nelle aziende. Sono la chiave per sviluppare le persone o per demolirle (e con esse l’azienda e la sua reputazione), sono l’ago della bilancia nelle performance e nell’engagement dei loro team, sono gli architetti dell’azienda di domani. Per questo le aziende investono – o vorrebbero farlo – così tanto in formazione manageriale, corsi di leadership, coaching ecc. Ma chi è il “capo”?

Il “capo” è la persona a cui sono stati affidati dall’azienda il potere di coordinamento delle attività e la responsabilità dei risultati di una o più persone, i suoi collaboratori.  

“Da un grande potere derivano grandi responsabilità” diceva Ben Parker al nipote Peter, ancora agli esordi della sua vita da Spider-Man. Prima di tutto vorrei riflettere su questo binomio potere-responsabilità, la cui separazione spesso è la fonte di frustrazioni sia per il manager che per il suo team di lavoro.

Da una parte il potere: il manager può fare il bello e il cattivo tempo con il suo team, dire loro cosa fare, quando e come; dire quando possono andare in ferie e quando no, dare aumenti e promozioni o bloccare una carriera all’angolo…e ovviamente più “si sale” più sono le persone sotto la sua influenza. Quante volte abbiamo detto o abbiamo sentito un college dire: “il mio capo mi ha tenuto fino alle 21 ieri in ufficio”, “dopo tutte le ore spese su quella attività, è arrivato il mio capo e ha detto che non serviva più”, “sono anni che lavoro qui e il mio capo non mi dà neanche un aumento”. Suona familiare?

Ma se tu sei un manager, quante volte hai pensato o detto: “ho detto a quella persona cosa doveva fare per filo e per segno e ancora non mi porta I risultati”, “ho dato a tutti un aumento eppure non sono mai contenti” e così via.

Tutte queste frasi che ci diciamo (o che diciamo a chiunque, appena possiamo) sono segno che del binomio potere-responsabilità stiamo considerando solo il primo fattore. Andreotti, parafrasando Charles Maurice de Talleyrand-Périgord, politico e diplomatico del 18° secolo, diceva che “il potere logora chi non ce l’ha”. L’invidia, la frustrazione, l’insoddisfazione, sono tutti I figli di questo logoramento, che alla fine stanca, spegne la passione e al contempo accende il cosiddetto “active disengagement”, altrimenti detto, il remare contro.

Ma dove è finita la responsabilità? Chi ce l’ha?

Tu.

E anche il capo. E il tuo collega. E il dirigente all’ultimo piano.

Perchè la responsabilità di come noi rispondiamo agli eventi e al potere che altri hanno o pretendono di avere su di noi è solo nostra.

Potevo non rimanere fino alle 21 ieri sera in ufficio? A meno che le 21 non siano il mio normale orario di lavoro, direi di sì. Perchè non sono andata via? Perchè se no il mio capo si arrabbiava, perchè non sarei riuscita a finire in tempo l’attività, perchè se non lo facevo io l’avrebbe chiesto al collega e mi dispiaceva… sono tante le motivazioni, fatto sta che ogni risposta che ci diamo giustifica una scelta che abbiamo fatto. Una scelta di cui dobbiamo imparare a riprenderci la responsabilità.

Così, allo stesso modo, se sono il manager che considera un “caso perso” il suo collaboratore che non performa bene da anni, mi sono chiesta cosa ho fatto per supportarlo? Se era il modo giusto? Se l’ho ascoltato veramente? Perchè poi, alla fine, I risultati mancati di quella persona sono anche I miei.

Dobbiamo recuperare il confine delle nostre responsabilità, e con esse ne deriverà anche il potere.

Non sto dicendo il potere dato (gerarchico, monetario, di status), perchè quello come viene dato viene anche tolto, è effimero, e più ne siamo attaccati più ne siamo schiavi.

Il potere a cui mi riferisco è la capacità di prendere in mano le redini della propria vita partendo dal riconoscere che la vita non mi accade, ma è un susseguirsi di mie scelte di cui mi prendo la responsabilità. Successi e fallimenti, onori e oneri.

Allora non diremo più “è colpa del mio capo…” ma potremo dire “ho fatto questa scelta”.

Connessione. Interdipendenza. Reciprocità.

Sono parole che mi affascinano da sempre, ma oggi più che in passato credo che siano di incredibile attualità, nonchè una necessità sociale.

Siamo in un momento come mai prima in passato in cui il “qui e ora” assume una valenza globale, che ci spinge (volenti o nolenti) verso l’altro. Ma per entrare in contatto veramente con gli altri è necessario rinnovare (o iniziare?) il cammino di conoscenza di noi stessi, perché alla base del dialogo ci sono due identità che si confrontano: non posso darti ciò che non ho – o non so di avere.

Il fine di questo blog è proprio questo: raccogliere riflessioni, pensieri, con il giusto equilibrio di profondità e ironia, non tanto per dare delle risposte, ma per porre le giuste domande.

Questo è il lavoro del coach. Ed è la mia passione.